di Paola Milicia.

In che misura l’arte contemporanea può esprimersi sulla religione e la spiritualità – ammesso che siano due cose diverse? Ce lo domandiamo davanti all’immenso lavoro del pittore e incisore Giovanni Gasparro (Bari, 1983) che merita di essere raccontato attraverso il pregio di chi ha generato un nuovo complesso di regole con cui tornare a parlare di opera religiosa e di moderna spiritualità, ovvero, un vocabolario capace di contemplare la tradizione sacra senza sconfinare nella teologia, e di riunire concetti che rimangono tanto associabili alla fede, quanto compatibili con chi non ne riconosce il messaggio.
L’arte contemporanea non è genuinamente religiosa, e tutto ciò che potrebbe essere a essa riconducibile difficilmente entra nei circuiti dell’arte di qualità, quelli di cui si parla e si scrive, di cui i musei espongono, o di cui i galleristi si contendono e vendono i pezzi. Oggi, l’arte religiosa contemporanea è tenuta scrupolosamente lontana dai percorsi artistici abituali, alvo poi ammirare capolavori del Cinquecento e Seicento, ove tuttavia, la committenza gioca un peso notevole sulla autonomia dell’artista – il che indurrebbe a qualche esitazione.
C’è senz’altro un pregiudizio, ma anche un generale problema di qualità che non ne agevola la comprensione né la diffusione: non basta certo che un’opera sia sacraper essere bella, né significativa, o commerciabile. La maggior parte degli esempi di cui disponiamo, infatti, è qualitativamente scadente, manierata, addirittura kitsch, quasi sempre scollegata dagli sviluppi dell’arte e delle sensibilità contemporanee. Per lo più è una forma artistica fatta di figure devozionali, santini e statuette di plastica che trova il suo piglio in quella matrice popolare che ne perpetua il genere senza ammetterne una rivoluzione qualitativa che vada in contro al gusto contemporaneo. E’ altresì vero il fatto che la comunicabilità tra modernismo e sacro invoca da tempo una distanza di giudizio che esclude ogni possibile sconfinamento, vige un disinteresse generale per il discorso religioso che non riguarda soltanto il mondo dell’arte; per non parlare del problema, si dica, di committenza, o come afferma Marko Ivan Rupnik in La via della bellezza nell’arte contemporanea anche il soggettivismo contemporaneo contribuisce, in un certo modo, a distogliere l’osservazione dal soggetto divino o liturgico all’uomo.
Con Giovanni Gasparro accade che l’abisso fra il sacro e il contemporaneo si attenua fino a dissolversi in una conversazione pacata e inclusiva, in cui il sentimento religioso non aspira a stare in un mondo dentro il mondo, in una trascendenza che elude l’esistenza, ma al contrario, in cui il divino è e abita quello stesso mondo corrotto dal tempo, dall’imminenza della vita e dell’esistenza terrene, pure se imperfette. Dovendone spiegare le ragioni in altre parole, direi che il sentimento religioso di Gasparro è mitigato dalla rivelazione continua di una spiritualità traumatica che non si fa mai troppo evanescente, né consolatoria o retorica come certe opere ecclesiastiche, né sorgente di beatitudine, gloria e bellezza, ma al contrario conserva ed esalta l’immanenza, l’imperfezione, il disagio, le ambiguità, le contraddizioni, la malattia, affidando al soggetto sacro una legittimità umana e sociale moderna. Dunque, un’opera che pur religiosa, non rispetta in tutto e per tutto la predicazione cristiana classicamente intesa, sebbene la tematica sacra resti senza dubbio quella pretestuosamente dominante: da una parte, come legame a una matrice propria del Regno delle Due Sicilie, con cui l’arte pugliese ha avuto punti di forte contatto i cui effetti sono rinvenibili anche oggi; dall’altra, in relazione a una inevitabile contemporaneità che accoglie, come ovvio che sia, fermenti spirituali e psicologici (ma non necessariamente religiosi) nuovi che guardano più significativamente alla società odierna e alle inquietudini contemporanee.
Lo stile del pittore è orientato verso il tenebrismo caravaggesco, come si evince dall’intento ritrattistico di moltissime opere i cui personaggi, plasmati da pennellate dense, cariche di colore e da un sapiente dosaggio di effetti luministici, conservano un aspetto crudo, violento, talvolta macabro, improntati sempre a un espressività dolorosa, supplichevole e meditabonda. Più in generale, nella fisicità gasparriana, che sembra anche tipicizzare la meridionalità in cui è il corpo a farsi parola, lingua, messaggio, simbolo, e addirittura, sintomatologia, colpisce l’esaltazione delle mani: il meccanismo vitale ed energico che a loro compete assume un valore apotropaico, quando allontanano o annullano un influsso magico maligno; sondano una trasformazione (lo si percepisce dai contorni in dissolvenza), una conversione (come appare chiaro anche nella titolazione del dipinto Transustanziazione, 2009), guidano una forza distruttrice e mortale (Erlkönig, 2007, che prende in prestito il nome da una ballata nordica riscritta da J.W. Goethe e musicata, tra i tanti, da Franz Schubert), mostrano il miracolo della guarigione (Tobit, 2009), narrano un equilibrio transitorio che segue prima di tutto un’azione interiore.
L’espressività cinetica delle mani è sempre direttamente connessa a una narrazione trascendente che si fonde alla vita intorno a un tavolo, o un abbraccio su un sofà, alla cerimonia di radersi la barba. Intrecci, abbracci, autoflagellazioni: le mani, dunque, dialogano, ascoltano, plasmano le superfici, seguono una traiettoria d’andamento, guidano una battaglia interiore, stringono, suggellano due sponde altrimenti divise.
I corpi che Gasparro ritrae sono prima di tutto luoghi della mente e del divino pensiero, capaci di rivelare la scoperta di sé che è anche scoperta di Dio. Sono corpi anche malati in cui, junghianamente parlando, è la malattia medesima ad assumere un carattere numinoso, salvifico, sacro, e risanato. La malattia – a mio avviso estendibile al senso di dolore, di sofferenza, di trauma – si trasforma in una occasione di incontro col mistero. Oltre a portare in dote nomi e narrazioni delle Scritture, questi corpi estetizzano visioni terrene incorporando, allo stesso modo, malattia e guarigione miracolose (Emorroissa 2008), diventano, cioè, meccanismi iconici e messaggeri di una spiritualità tormentata, finibile (intesa come non eterna) che altro non è immanenza, vita, esistenza. Un sentimento religioso quello di Gasparro che non è visto come una fuga dalle atrocità del mondo verso la beatitudine ultraterrena, ma che sorge dalla stessa incoerenza del mondo terreno: brutto, ingiusto, atroce, imperfetto, malato, il mondo che da vita all’uomo è lo stesso che dà vita al pensiero di fede, al sentimento religioso, alla visione divina.
Guidato da un istinto sicuro, e dotato di una capacità poetica oltre che pittorica, Giovanni Gasparro si distingue per profondità e originalità lì dove compie la sintesi tra trascendente e immanente, in un mondo che tende a essere o l’uno o l’altro, e sempre meno evento dello stesso mondo.

[Paola Milicia]: Ti si definisce l’ultimo dei caravaggeschi. Senti che questa definizione ti si addica? E quali sono le diverse ispirazioni o influenze di Giovanni Gasparro?
[Giovanni Gasparro]: Il primo a far uso di questa comparazione è stato Vittorio Sgarbi. Conoscendomi da molti anni, ha saputo certamente cogliere l’analogia evidente, in termini di valori luministici, cromatici e compositivi, con il Merisi. Ad ogni modo, come ogni semplificazione critica, ne avverto tutta l’angustia. Ritengo che la mia pittura abbia tratto ispirazione dalle più disparate forme d’arte, non solo quelle figurative ma anche performative, dal teatro al cinema, dalla musica alla danza. Di recente questo interesse si è estrinsecato nella mia prima scenografia teatrale, per la Tosca di Puccini , al Teatro Coccia di Novara e al Teatro Giuseppe Di Stefano di Trapani.
Ovviamente la letteratura è, altresì, un’ennesima fonte di ispirazione. Ho guardato tanto all’arte antica, dalla statuaria ellenistica a quella tedesca medioevale, dai fondi oro all’arte rinascimentale, dalla pittura barocca napoletana e lombarda, a quella spagnola, fiamminga e olandese sino al settecento veneziano, inglese ed ancora napoletano, nonché l’ottocento russo e italiano. Senza disdegnare la figurazione del ‘900 e contemporanea. Sarei sinceramente in difficoltà nell’indicare pochi nomi o scuole di pittura. In definitiva, prendo ispirazione da tutto, dalla mia vita stessa.
È di qualche tempo fa l’articolo apparso sul Corriere della Sera, Religione e modernità. L’arte sacra contemporanea? Che orrore, con cui il critico Gillo Dorfles guardava all’arte sacra con un diffidenza che derivava principalmente dalla mediocrità di certe testimonianze, chiedendosi se fosse possibile un’arte veramente attuale che sia anche sacra. D’altra parte l’arte contemporanea non ha trovato, ancora oggi, un linguaggio in grado di veicolare un discorso religioso capace di suscitare un vero interesse. Qual è la tua opinione a riguardo?
L’interesse degli artisti contemporanei, per le tematiche sacre e religiose, è episodico e per la gran parte provocatorio o dissacratorio, se non addirittura blasfemo. L’asserzione di Gillo Dorfles appare alquanto severa nella sua sprezzante demolizione velata di un certo anticlericalismo. Ad ogni modo non è totalmente da rigettare. Mette in evidenza come l’arte sacra contemporanea, dove per “arte sacra” vogliamo intendere quella commissionata dalla Chiesa per gli edifici di culto e la liturgia cattolica, non abbia saputo proporre un linguaggio maturo. Se da un lato sono state intraprese commissioni marcatamente intellettualistiche e minimali, mutuate dalle proposte visive aniconiche delle “chiese” protestanti o dall’Islam e l’Ebraismo, quindi incomprensibili per i fedeli, dall’altro si è ripiegato sulle statue seriali in resina, stampe fotografiche o dipinti oleografici. Sono ben pochi i casi di proposte d’arte sacra contemporanea di un qualche valore. Il decadimento è iniziato a fine ‘800 ma ha subito un’accelerazione netta con il Concilio Vaticano II, rompendo gli argini e cercando in modo maldestro una cesura con il passato, per emulare il mondo contemporaneo profano. Il risultato è stato effettivamente catastrofico. Oggi possiamo tracciare un bilancio onesto su questa estetica religiosa dell’ultima metà del secolo passato, in parallelo con la decadenza dell’architettura e della musica sacra, così come denunciato, fra gli altri, da intellettuali non necessariamente cattolici ma con grande acume critico come Riccardo Muti, Jean Clair e Martin Mosebach.
Sono molte le opere che oggi esponi in Chiese (oltre a far parte di collezioni private): il dittico della basilica di San Valentino a Terni, moltissime opere nella basilica di San Giuseppe artigiano, a L’Aquila. Si tratta di committenze? Come cambia – o è cambiato – il desiderio di possedere opere d’arte da parte della Chiesa e dei privati che si avvicinano alla opera religiosa come la tua?
Ritengo di essere in una condizione di privilegio che mi permette di poter scegliere quali commissioni accettare. Non potendo assecondare tutte le richieste, scelgo solo quelle che mi sono congeniali per poetica e soggetto. In termini percentuali, sono certamente più i privati a commissionarmi o acquistare opere. La Chiesa ha numerose difficoltà di natura economica o di preparazione sul versante artistico. Poche Diocesi hanno responsabili d’arte sacra in grado di conoscere il patrimonio artistico che si trovano a gestire ed in parallelo a valorizzare gli edifici di culto con opere d’arte contemporanea che, nell’edilizia antica, non vadano a ledere gli equilibri preesistenti in modo biecamente provocatorio o autoreferenziale. Credo ci sia un problema di formazione del clero nei nuovi seminari. I teologi committenti, in passato, erano molto preparati ed esigenti e sapevano guidare gli artisti. Persino alcuni santi di tempi relativamente recenti hanno avuto questo ruolo. Si pensi a san Giovanni Bosco o san Pio da Pietrelcina.
Mancano spesso anche gli slanci dei fedeli, un tempo molto prodighi e più generosi nel donare ex voto, talvolta di squisito valore artistico.
I privati, invece, commissionano opere d’arte sacra per devozione personale o soltanto per affezione verso determinate iconografie. Personalmente posso godere di un consenso trasversale, beneficiando del fatto, probabilmente, di non avere molta concorrenza. Sicché non mi sono mancate commissioni, anche monumentali, per chiese e basiliche italiane ed estere.
Si è parlato di mani e di vitalità gestuale. Ma aggiungerei anche il tema degli specchi, di sosia, cloni, di Doppelganger. Esiste un po’ ovunque una visione romantica del corpo, delle sue età, dei suoi disturbi (la perdita di sangue, la follia, la cecità, la verginità, gravidanza). Per Gasparro il corpo è un’opzione di linguaggio o uno accostamento al numinoso?
La corporeità è l’opzione di linguaggio preferenziale per antonomasia, nella mia arte. Anche in quella sacra. Epurandola, ovviamente, dei connotati sensuali, la visione del corpo è strumentale alla narrazione evangelica, delle vite dei santi o della dogmatica. La Chiesa questo lo ha sempre capito, perché non siamo puro spirito come gli angeli, pertanto abbiamo bisogno dei sensi, soprattutto della vista e dell’udito per la conoscenza della Verità rivelata e per le suggestioni sacre. Come detto pocanzi, l’aniconismo e quindi l’assenza di figure, invece, non può essere una proposta valida neanche oggi per l’arte sacra, perché nega la funzione catechetica e, in ultima istanza, limita o azzera l’evangelizzazione. Il Cattolicesimo ha mutuato l’aristotelismo nel pensiero di san Tommaso d’Aquino e della Scolastica, sino alla trattatistica post tridentina, in primis con san Carlo Borromeo ed il Card. Federico Borromeo a Milano ed il Card. Paleotti a Bologna, superando, attraverso la “pittura della realtà” gli artifizi intellettualistici del Manierismo. Il grande teatro della pittura barocca, con la sua fisicità, con i contrasti fra luci ed ombre, visioni estatiche celestiali di santi e cori angelici in dissonanza con le marcescenze pestifere ha ridestato l’arte dal torpore, e con essa la Fede. La Chiesa seppe comprendere, potrei dire per illuminazione divina, tutta la portata del realismo e della figurazione. Oggi ciò non accade così di frequente. Lo constato con amarezza.
La rappresentazione del corpo umano non è il fine ma uno degli strumenti. Il linguaggio figurativo, d’altronde, è comprensibile da tutti, anche da chi non è avvezzo alle iconografie sacre. Quindi mi ha permesso di parlare visivamente anche a persone lontanissime dalla fede e in contesti sempre differenti.
Si nota un cambiamento significativo tra le opere del 2008 – 2009 e quelle più tardive in cui prediligi la presenza di significati e simbologie più direttamente rinvenibili nelle liturgie e nelle scritture: pontefici, preti, santi, diavoli. L’opera, in un certo senso si fa più esplicitamente “sacra”. Ce ne vuoi dare una spiegazione?
Tra le mie prime opere e quelle odierne c’è effettivamente una cesura marcata. Tra le une e le altre, il cambio di rotta è stato dettato dalla mia conversione. Sono sempre stato cattolico, come tutta la mia famiglia, ma da diversi anni ho scoperto la Messa tridentina, in latino, e questo evento ha segnato profondamente il mio modo di vivere, di credere e pregare e quindi anche di dipingere.
La conversione ha scavato alcuni argini di aderenza scritturistica, dogmatica e liturgica. Mi ha imposto un rigore maggiore ma paradossalmente, anziché limitare l’afflato ideativo e creativo, lo ha esaltato e reso prolifico, dandomi maggiore fervore immaginifico.
Ha sorpreso anche me, inoltre, riuscire a scardinare alcune scelte settarie di musei e gallerie d’arte contemporanea, in cui sono stato invitato ad esporre, pur proponendo opere smaccatamente sacre, cattoliche e legate alla tradizione.
La sfida è riuscire a proporre un linguaggio artistico contemporaneo, nel solco della tradizione, apportando un contributo inedito senza dileggiare il passato in modo banalmente provocatorio.
Tutte le immagini © Giovanni Gasparro
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