Altre Ecologie - Quando l'Arte protegge il Pianeta

La Venezia di Inge Morath. Spazio e incanto in fotografia

di Ginevra Amadio.

Inge Morath

Il geografo Armand Frémont scriveva in “Vingt ans d’espace vécu” che «il territorio è portatore di segni» nascosti, impalpabili, per interpretare i quali è necessaria un’operazione di ‘acclimatamento’, un lavoro sulla percezione che «lega il soggetto all’oggetto». Dei valori intrecciati a questi segni «la letteratura e la pittura sono degli intermediari di eccezionale ricchezza», ed è nello sguardo mediato, persino strabico dello ‘straniero’ che si compie la fusione tra geografia e sentimento, tra i concetti di spazio, città e il senso dell’emozione umana.

In questa prospettiva, la Venezia di Inge Morath (Graz 1923 – New York 2002) è un concentrato di umori, sapori, territorio strappato al mare e apparentemente immutabile, «metà fiaba e metà trappola» come la descriveva Thomas Mann, città-caleidoscopio che assume in sé le contraddizioni del tempo, che è insieme sé stessa e altro. La mostra a Palazzo Grimani (“Inge Morath. Fotografare da Venezia in poi“, a cura di Brigitte Blüml e Kurt Kaindle) si è posta allora come duplice osservatorio sull’arte della fotografa e sull’anima di un luogo simbolo della geografia umanistica, un ‘campo emozionale’ così come lo intende Yi-Fu Tuan, dalla fisionomia instabile, di volta in volta ri-definibile a partire da sé, dalla propria disposizione d’animo.

Inge Morath, Audrey Hepburn, Durango, Messico, 1958 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos

Inge Morath, Audrey Hepburn, Durango, Messico, 1958 © Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos

Morath stessa ne aveva colto il barlume – in realtà uno degli infiniti spettri di luce – nell’autunno del 1951, quando con il primo marito Lionel Birch fotografò con una vecchia Contax gli angoli e i passanti di una Venezia fuori canone, avvolta nell’atmosfera brumosa di una stagione di transito, quando i fasti appaiono più discreti, gli scorci meno affollati.

«La luce era bellissima, la pioggia aveva ricoperto ogni cosa come con un vetro. Chiamai Capa e gli proposi di mandare qualcuno a fare delle fotografie. Capa mi fece energicamente notare quanto quell’idea fosse impraticabile e disse: “Perché non fai tu una fotografia?” Così andai in un negozio, comprai una pellicola e mi feci caricare la macchina. Il commesso mi consigliò di non fare fotografie con quel tempo. Ma io la sapevo più lunga: si possono fare fotografie anche con il cattivo tempo – non per niente ero stata a guardarli tutti mentre lo facevano a lavoro. Sulla confezione della pellicola era scritto qualcosa sul cielo nuvoloso: tempo di esposizione 1/50 con focale 4. Poi guardo l’ora, trovo il punto preciso per la prima fotografia e per aspettare che passino esattamente le persone giuste nel posto giusto. Avevo appena cominciato a premere il pulsante, che all’improvviso mi resi conto che per me quello era il modo perfetto di esprimere ciò che avevo dentro».

Questa osmosi tra interiorità e ambiente esterno, tra sentimento e senso del luogo è, nello sguardo di Morath, una cifra stilistica ed esistenziale, volta a tradursi in un’urgenza di scandaglio che si appunta su situazioni, movimenti, volti. Come i ritratti scattati per l’Agenzia Magnum (di cui è stata la prima fotoreporter donna), anche i ‘momenti’ veneziani ci donano un’intimità strappata, sottratta con discrezione al ritmo del quotidiano, come se la fotocamera fosse al contempo vetro e sonda, strumento di anamnesi e di rottura delle diffidenze.

 Inge Morath, Venezia, 1955 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos

Inge Morath, Venezia, 1955 © Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos

Il secondo soggiorno di Morath nella città d’acqua – quando nel 1955 la rivista “L’Œil” le commissiona un reportage per illustrare “Venezia salvata – Venice Observed” di Mary McCarthy (1956) – si tramuta in un’immersione nello spirito del luogo, in un viaggio al termine del mito, lungo spazi e scorci che cristallizzano, uccidendoli, gesti innocenti e banali di chi li attraversa. Libero da scorie, il suo sguardo innerva di umanità una fotografia che con lei passeggia tra calli e campielli immobilizzando i giochi dei bambini, il merletto fra le mani delle donne di Burano, un paio di scarpe abbandonate vicino alla fontanella.

Quasi in contrasto con la perspicacia di McCarthy (che racconta la società veneziana come una ridda di «commercianti che vivono solo per il guadagno»), l’artista posa il suo sguardo tra gli interstizi della ‘normalità’, cosicché nei volti dei falegnami e dei pescatori lascia intravedere una dolce malinconia, una impalpabile confidenza, la stessa che alberga negli occhi di Heinrich Böll, di Pablo Piccasso, di Anais Nïn e delle altre celebrità ritratte nell’arco di una carriera radicata tra spazi e luoghi.

È questo, in fondo, il nucleo della sua fotografia, quella capacità di andare oltre il mero soggetto cercando una forma per rendere viva la materia, per immaginare e restituire quell’impasto di inquietudini e conflitti che fa di un volto un mondo, di un luogo un concentrato di storie.


Inge Morath, Venezia, 1955 © Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos

Immagine in evidenza: Inge Morath, Autoritratto, Gerusalemme, 1958 © Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos (part.)