Reaching for the stars: storia contemporanea, identità culturali, materia e musica

Reaching for the stars: storia contemporanea, identità culturali, materia e musica

Grazie alla varietà, complessità e molteplicità delle opere esposte, la mostra “Reaching for the stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye” (Palazzo Strozzi, Firenze) offre numerosissimi spunti per guardare attraverso l’arte a tematiche differenti, per riflettere sull’oggi e aprirsi a scenari inconsueti, avvalendosi dei messaggi degli artisti. Ciascuno di loro ci invita – con la propria sensibilità – a esplorare argomenti che sono legati da un filo conduttore, utilizzando linguaggi solo apparentemente inconciliabili.

Storia contemporanea

La storia contemporanea si legge in filigrana in molte delle opere esposte, ma alcune di esse sono collegate indissolubilmente al momento e al contesto che interpretano. Così William Kentridge è stato intimamente influenzato dal suo vissuto in Sudafrica e dalla questione della segregazione razziale. Con il cortometraggio di animazione History of the Main Complaint, 1996, (Storia della denuncia fondamentale) allude alla stratificazione della memoria e all’idea del tempo, con riferimento al momento in cui in Sudafrica si è cominciato ad avere consapevolezza delle violazioni dei diritti umani perpetrate durante l’apartheid.

Maurizio Cattelan affronta temi dell’attualità, spesso drammatica, con la sua ironia dissacratoria. Cesena 47-A. C. Forniture Sud 12 (2° tempo), del 1991, è una fotografia scattata nel corso della partitaperformance organizzata dall’artista, su un calcetto appositamente progettato, tra le riserve del Cesena e undici giocatori senegalesi dell’A. C. Forniture Sud, squadra da lui fondata un anno prima. Con il nome dello sponsor stampata sulle maglie, l’immaginaria impresa di trasporti Rauss, parola che si collega al lessico nazista, Cattelan affronta la questione razziale e il tema dell’immigrazione, clandestina e non, facendo assumere all’opera un connotato politico, nel periodo della fondazione della Lega Nord. In Christmas ’95 (1995), la stella a cinque punte in un cerchio, fiancheggiata dalle lettere simbolo delle Brigate Rosse – riferimento alla strategia della tensione, agli anni bui e “di piombo” che hanno caratterizzato la storia italiana viene trasformata da Cattelan in una stella cometa in neon. L’artista suggerisce così che le utopie rivoluzionarie dell’epoca fossero destinate a svanire come la stella cometa natalizia, dopo essere state, causticamente, trasformate in un’insegna da bar. Cattelan ha raccolto in Lullaby (1994), un sacco di tela blu, macerie dell’attentato avvenuto la sera del 27 luglio 1993, quando Cosa Nostra fece esplodere un’autobomba fuori del PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, provocando la morte di cinque persone. Il titolo (Ninnananna) apparentemente tenero, ma per questo ancora più sconvolgente se collegato al luttuoso evento notturno è espressione perfetta del sarcasmo nero dell’artista. L’attentato, uno dei numerosi e violentissimi atti terroristici di stampo mafioso che fra il 1992 e il 1993 insanguinarono l’Italia, coincise con la preparazione della prima personale di Cattelan all’estero. Con l’opera l’artista volle così condividere il clima di tensione instaurato nel Paese.

È entrato nell’immaginario collettivo l’avvenimento che Hans-Peter Feldmann in 9/12 Front Page (2001) fissa nella memoria attraverso le prime pagine di quotidiani del 12 settembre 2001, quando in tutto il mondo fu diffusa la notizia dell’attacco alle Torri Gemelle. Un evento simbolo del contemporaneo, che ha segnato uno spartiacque nella storia mondiale, determinando azioni e reazioni di cui ancora oggi si avvertono le conseguenze. Se la formula 9/11 è ormai entrata nell’immaginario globale, è meno immediato il riferimento al giorno successivo, anche se l’esposizione simultanea dei giornali dà subito conto, anche “fisicamente”, del ciclone provocato dall’atto terroristico. L’installazione, mostrando reazioni molto differenti, induce ad analizzare il modo in cui la notizia venne data dalle diverse testate e le contrastanti interpretazioni dell’evento: tutte le prime pagine sono però accomunate dalla potenza delle iconiche e indimenticabili immagini delle torri colpite dagli aerei e poi crollate tra il fumo e le fiamme. Fa parte del modus operandi di Feldman farci riflettere sul nostro rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione.

Shirin Neshat – presente con la stampa fotografica Faceless from Women of Allah Series (1994) e il video Possessed (2001) è tra le prime donne provenienti dal mondo islamico a essersi affermata a livello internazionale. Le sue opere impongono una riflessione sull’assenza dello spazio individuale e della libertà di espressione cui sono soggette le donne iraniane. L’artista, che vive da decenni in esilio negli Stati Uniti, ha preso una posizione molto forte in occasione dell’uccisione nel settembre 2022 della giovane Mahsa Amini, punita dalla polizia morale iraniana per non aver indossato correttamente il velo. Neshat è intervenuta su Instagram anche postando uno sconvolgente video amatoriale che mostra la disperazione della madre di un giovane impiccato per aver manifestato contro l’assassinio di Mahsa. Sono donne quelle di cui parla il lavoro dell’artista, e della loro difficile posizione in un Paese in cui vige ancora la lapidazione per le adultere.

Le identità culturali

Poiché gli artisti in mostra sono originari di venti Paesi diversi in rappresentanza di cinque continenti, ciascuno contribuisce con la propria identità culturale – varia e intrecciata, ma profondamente differenziata a creare visioni glocal, di respiro planetario ma visceralmente legate all’immaginario di ciascuno.

Le origini kenyote di Michael Armitage sono dichiarate dall’iconografia incentrata sull’Africa orientale e dall’uso come supporto per i dipinti del lubugo, un materiale ottenuto dalla corteccia di un albero. L’uso di questa base fa riferimento alla tradizione e al contemporaneo africani: adoperato in origine per oggetti cerimoniali nelle sepolture ugandesi, è stato desacralizzato a beneficio dei turisti in Kenya. Armitage è influenzato dall’arte occidentale, ma i riferimenti si fondono con la rilettura del Kenya di oggi: in Mangroves Dip (2015) fa riferimento a un fenomeno che ha inciso sulla vita del suo Paese, il turismo sessuale di donne europee, che ha portato alla nascita di bambini di etnia mista. Poiché le straniere prediligono le località della costa dove crescono le mangrovie, le due immagini turismo sessuale e vegetazione sono associate in una visione onirica.

Lynette Yiadom-Boakye, figlia dell’esodo africano in Inghilterra, rilegge il collaudato e antico genere del ritratto stravolgendolo attraverso personaggi fittizi, in un linguaggio ritenuto importante per la storia della comunità afro-britannica di seconda generazione. Dipinge infatti solo figure di neri, una scelta che diventa gesto politico per sottolineare che la storia dell’arte è monopolizzata da ritratti di bianchi.

Al proprio mondo ancestrale fa riferimento anche Giulia Cenci (ff #02, 2019), che incrocia forme umani e animali a macchine, per creare nuovi ibridi. Ai materiali, rigorosamente riciclati, aggiunge come traccia del suo vissuto la polvere dello studio che ha allestito nella campagna toscana in una ex stalla prossima alla casa di famiglia.combina dunque modernità e memoria, mentre nella pratica non vuole essere limitata da consuetudini frutto della tradizione.

All’identità e alla denuncia degli stereotipi allude Andra Ursuta con la figura straniante di Commerce Exterieur Mondial Sentimental (2017) con cui critica le discriminazioni subite dalla popolazione Rom. Per “Commercio estero mondiale sentimentale” ha tratto ispirazione dalla fotografia di una donna Rom che stava per essere espulsa dalla Francia. La figura in marmo indossa una giacca su cui pendono monete che la fanno sembrare un abito folclorico, mentre sulla schiena appare il logo di una marca globale. La persona reale della fotografia originaria, con il suo carico di angosce e custode di usanze millenarie, è stata trasformata in un manichino per esporre merce e denaro, privandola della sua umanità.
Con la sua superficie perfettamente lucida e levigata, calco di una maschera rituale africana in legno, il bronzo Body Mask (2007) di Sherrie Levine riflette sull’alterazione dei significati culturali originali. Trasformando un manufatto utilizzato nei riti di passaggio verso la vita adulta in un bene di lusso della società dei consumi, priva l’oggetto del suo significato e, col cambiamento del contesto, assegna alla replica un senso totalmente diverso.

La materia

La manipolazione, la trasformazione dei materiali e il loro significato simbolico sono al centro di molti dei lavori presenti in mostra. Gli artisti, quasi come alchimisti di oggi, trattano materie di ogni genere, spesso inconsuete in campo artistico, che agiscono da catalizzatori, innescando processi di metamorfosi.

La schiuma di sapone fuoriesce, eterea e in perenne movimento, dalle colonne dei Cloud Canyons (1988) di David Medalla creando nuvole che vanno a raccogliersi alla base della struttura in un movimento ininterrotto. Le opere di questa serie di “macchine a bolle”, hanno contribuito a decostruire l’idea tradizionale di scultura: sono effimere, mutevoli, lontane dalla monumentalità che si associa al medium. L’interesse dell’artista per le trasformazioni casuali che regolano il mondo naturale è evocato dalle parole del titolo, che associa l’impalpabilità delle nuvole all’imponenza statica dei canyon.

Il grande orso polare di Paola Pivi di Have you seen me before? (2008) è in schiuma poliuretanica, non in peluche, e ha la pelliccia di piume di pulcino gialle. Ne risulta una creatura ibrida, combinazione di un gigantesco mammifero selvatico e di un minuscolo volatile da cortile. Il primo, simbolo di una natura selvaggia, il secondo inerme, docile e dal soffice piumaggio. Pivi, creando un’atmosfera da “realismo magico”, vuole stimolare emozioni nuove, sollecitare l’immaginazione, cambiare punti di vista stereotipati, alterare la percezione della realtà e far riflettere sul difficile rapporto tra uomo e natura.
In Viral Research (1986) Charles Ray colloca su un tavolo di laboratorio otto contenitori trasparenti con un vischioso inchiostro nero che scorre dall’uno all’altro attraverso tubi, assestandosi alla stessa altezza. Ray ha voluto veicolare sensazioni di “contaminazione” e precarietà, suscitate dal nero minaccioso della sostanza vischiosa e dalla fragilità del vetro: un’allusione all’ansia di una possibile contaminazione, che nel 1986, quando l’opera fu realizzata, si riferiva all’AIDS, ma che è ancora attuale nella nostra epoca post-pandemica. La delicatezza del vetro si contrappone alla solidità del bronzo della poderosa Nixe (2021) di Thomas Schütte, che si ispira, utilizzando un materiale millenario, a soggetti e tematiche classiche, ma deformandole e congiungendo il passato e il presente della scultura.

Anche Mark Manders con Unfired Clay Torso (2015) riflette sulla scultura, e traduce in una visione concettuale la statuaria classica. I materiali usati e la capacità di padroneggiare la tecnica gli permettono di giocare su apparenze e contrasti: se il titolo suggerisce che il busto sia plasmato nella fragile argilla cruda, in realtà è fuso in un bronzo inalterabile. All’apparenza sembra essere stato il tempo, tema ricorrente del lavoro di Manders, a erodere il corpo e il viso, ma è l’artista stesso che è intervenuto, sostituendosi all’inesorabile fluire delle stagioni.

Se i materiali utilizzati da Manders e Schütte, appaiono, o sono, durissimi e pesanti, per il suo Self- Portrait (1993) Pawel Althamer ha usato morbida cera, grasso, capelli e intestino animale per affrontare un soggetto, l’autoritratto, centrale nel suo lavoro e frutto di continue sperimentazioni attraverso l’uso di simili inconsuete sostanze organiche. L’artista, che si è invecchiato e imbruttito, si offre nudo allo sguardo del pubblico per osservarsi dall’esterno e indagare il tema dell’alienazione, della solitudine e della fragilità umana.

La musica

Alcuni artisti le cui opere sono presenti in mostra hanno un rapporto particolare con la musica, come Wolfgang Tillmans (Greifbar 48, 2017) interessato alla produzione della controcultura giovanile degli anni Novanta, o Albert Oehlen (Untitled, 2017), che vede il free jazz come metafora della propria pittura.
Espressioni musicali diverse, elemento fondamentale della sua poetica e del suo messaggio, sono quelle che l’artista egiziano Wael Shawky ha scelto per Cabaret Crusades: The Path to Cairo (2012). Canti tradizionali, cori di bambini, musiche elettroniche, accompagnano la rilettura delle Crociate viste dall’ottica musulmana, trasformando la narrazione in uno spettacolo musicale – il cabaret citato nel titolo – per mezzo anche di marionette di argilla dalle fisionomie grottesche.
Anche la colonna sonora, che unisce la musica della rock band scozzese Mogwai all’audio d’ambiente, concorre a fare della videoinstallazione Zidane. A 21st Century Portrait di Douglas Gordon e Philippe Parreno, un potente “ritratto del XXI secolo”.
Altresì William Kentridge (History of the Main Complaint, 1996), utilizza suoni d’ambiente ma li combina all’accorato lamento di un madrigale di Monteverdi, per accompagnare il percorso del vissuto del protagonista.
Ma è l’islandese Ragnar Kjartansson l’artista che più di ogni altro presente nella mostra a fare della musica l’essenza stessa della sua espressione artistica, soprattutto nella videoinstallazione The End – Rocky Mountains (2009), che è un concerto suddiviso in cinque grandi scene con solo due protagonisti (Kjartansson stesso e Davíð Þór Jónsson, autori dei brani ed esecutori), che suonano strumenti differenti immersi nella natura, alternativamente matrigna insensibile durante una tormenta o benigna dispensatrice di sole in un’amena vallata. Lo spettatore al centro della sala, circondato dagli schermi, ascolta i cinque brani, diversi ma sincronizzati, che insieme compongono una partitura completa – i primi quattro caratterizzati dall’accordo in sol maggiore, il quinto dalla tonalità relativa in mi minore – a cui le immagini, come quella di un pianoforte che emerge in un’assolata distesa di neve, aggiungono una nota surreale. Le diverse scene, unite, creano un concerto-percorso alla ricerca del sublime romantico, in una sfida ai limiti della resistenza umana, con cui Kjartansson s’interroga, come spesso nei suoi lavori, sul confine tra arte e vita.
L’espressione musicale, sotto forma di canzoni eseguite da presenze femminili, è alla base di This You (2006), una “situazione costruita”, come Tino Sehgal definisce i propri lavori. L’artista, che impedisce con clausole precise che delle “situazioni” resti qualsiasi traccia fisica (fotografie, video o audio), vuole che rimanga invece un’indelebile emozione in ciascuno dei presenti.

Reaching for the stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye
cura: Arturo Galansino.
PALAZZO STROZZI
Piazza degli Strozzi, 50123 Firenze
055 2645155; http://palazzostrozzi.org/

Immagini e testi © Fondazione Palazzo Strozzi; foto allestimento: OKNO Studio