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Alchimie prospettiche. L’arte di Grazia Azzali tra rêverie e vibrazioni

di Ginevra Amadio.

"Alchimie prospettiche. L'arte di Grazia Azzali tra rêverie e vibrazioni"
di Ginevra Amadio.

Sfugge alla tassonomia dei generi l’enigmatica produzione di Grazia Azzali, artista visionaria e fuori canone singolarmente sospesa tra il fantastico e l’onirico, scevra da moralismi etico-politici e dunque libera di sperimentare, rimaneggiare, dare forma unica – costantemente rinnovata – a lampi di idee evanescenti, che sembrano giungere da altre dimensioni, imprecisate e inafferrabili.

Difficile classificare le sue intuizioni, tentare di dar loro un senso piano, oggettivamente interpretabile, poiché l’intera opera di Azzali svela una fascinazione per i margini – dell’universo mentale e di quello sensoriale – in costante equilibrio con il rifiuto delle istanze o delle costrizioni teoriche.

Lo mostra bene Torre d’avorio (2021), una serie in cui l’artista sovverte ogni simbologia cristiana e dà vita, piuttosto, a proiezioni che costeggiano il rimosso, laddove le sfumature del blu rimandano all’unione tra terra e cielo, al punto di contatto con l’orizzonte che abbatte ogni idea di separazione, di gerarchia valoriale. Nulla è ordinato nell’universo di Azzali, ogni immagine risulta attraversata da faglie che sottendono altri sensi, infiniti rovesciamenti di segno.

Già i lavori fotografici (con scatti selezionati, tra gli altri, dall’editore Costa & Nolan) svelano la cifra del suo sentire, quel perturbante dis-equilibrio fra rêverie e allucinazione che lascia intendere come ciascun guizzo, ciascun ‘indizio’ sia in realtà frutto di un processo vorticoso, di un inspiegabile assorbimento di suggestioni che scuotono senza annientare.

L’artista sembra pescare dal magma in ebollizione del Surrealismo, dove la ‘solarizzazione’ di Miller e Ray convive col matamorfico-onirico di Carrington ed Ernst. Eppure qualcosa sfugge, perché Azzali è insieme se stessa e altro, assimila le lezioni dell’arte classica, dell’avanguardia e persino del primitivismo per farne cosa intima, viscerale, in piena rottura con ogni tradizione.

La serie degli Éidōla, omaggio a Claude Lèvi-Strauss, si pone in tal senso come un osservatorio privilegiato, poiché qui le opere acquistano consistenza materica, appaiono come forme ‘fisiche’ di quanto è celato agli occhi, o meglio di quanto sfugge allo sguardo anestetizzato. Totem di tabù, verrebbe da dire, leggendo questi oggetti come la traduzione di un’epifania, di un istante che lega l’artista a potenze altre, a Spiriti che fanno a pezzi il razionalismo, la piena e rotonda costruttività occidentale.

Qui riposa il polisenso dell’arte di Azzali: nel sostare alle porte del sacro per demolirne il recinto, nel trasferire miti e riti in una società – la nostra – che ha perso ogni contatto con l’altrove, con ciò che sfugge al controllo, alla disciplina ideologica. Non solo, perché questi oggetti sono amalgama di cartapesta e piume, tripudio di colori senza linee o contorni, a ricordare la smarginatura dell’eidetismo ma anche, soprattutto, l’anello di congiunzione tra il passato e il presente, laddove – posti in una teca – i totem si spoglieranno del piumaggio svelando l’anima ‘nuda’: un relitto di altri mondi.

C’è poi un altro fuoco nell’opera di Grazia Azzali, un nucleo primigenio che torna a visitarla in veglia, quando d’istinto ri-definisce e assembla quelle «stranezze irriducibili» sintetizzate da Roger Callois in Au cœur du fantastique (Nel cuore del fantastico, 1965), spunti che procedono da una contraddizione «insita nella natura stessa della vita, che riesce addirittura ad abolire momentaneamente, per un vano ma conturbante privilegio, la frontiera che la separa dalla morte». È il doppio a dominare il gorgo materico di Azzali, a orientare una poetica della sguardo che consente di spiare tra le maglie segrete dell’universo, di dar credito alle proprie visioni per illuminare il reale. Vengono in mente le parole di Anna Maria Ortese, che ne L’Iguana (1965) rimarca la prismaticità del vero: «Purtroppo non si tiene conto che il reale è a più strati, e l’intero Creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione».

Ma anche qui l’artista va oltre, e regala una serie di immagini che abradono la patina della grande Storia rompendo con la tradizione del secolo breve, denso di ideologie ‘martiriche’, di teste che divorano i corpi. I disegni in cui Azzali fa confluire quelli che definisce i «cadaveri» della psiche sono la prova di un rovesciamento prospettico, di una liberazione dalle gabbie del perbenismo, della normatività borghese. I soggetti ritratti, mai fermi, mai uguali, sono vissuti come un corpo permeato osmoticamente da sensazioni visive, olfattive, tattili, umorali, in quella che appare una sorta di sinestesia che investe ed erotizza tutto. Eros e Thanatos, dunque, ma soprattutto pittura ‘fisicizzata’ che dà sfogo a visioni, a pensieri sconvenienti, allorché la libido serpeggia ovunque, sessualizzando qualsiasi categoria precedentemente narcotizzata: la mente, i rapporti di coppia, l’identità femminile.

Azzali trova nella vasca un luogo di annientamento e rinascita, l’ambiente in cui riposano i cadaveri che – a differenza dei fantasmi – schiacciano il soggetto donna costringendolo a rompere le catene, a individuare nello spazio della mezza-morte (così efficacemente ribattezzata da Alberto Savinio) una via d’uscita dal quotidiano ingabbiante. Non è un caso che le immagini di Azzali pullulino di riferimenti al materno, dall’acqua metaforicamente evocata (ancora la vasca, che può essere tomba e fonte battesimale al tempo) alle figure rappresentate a gambe aperte.

Vita e morte non sono mai in contraddizione nell’universo di questa artista, ma si mescolano in un connubio che dà corpo al desiderio di leggere nell’inconscio, di tornare a una vita prenatale in cui l’uomo e il suo doppio erano liberi di coesistere. Così l’acqua, come il liquido amniotico, prelude a un ritorno all’utero che è ricongiungimento col cosmo, con una vita ‘depurata’.

«La morte nelle acque – scrive Gaston Bachelard in L’eau et les rêves: essai sur l’imagination de la matière (Psicanalisi delle acque, Purificazione, morte e rinascita,1942) – sarà per questa rêverie la più materna delle morti. Il desiderio dell’uomo, sostiene Jung, è che la morte e la sua fredda morsa diventino il grembo materno, esattamente come il mare».

L’intervista

[Ginevra Amadio]: C’è un senso di impalpabile profondità nelle tue opere, una prodigiosa capacità di penetrare l’ignoto. Mi piacerebbe sapere da dove vengono le tue immagini…

Grazia Azzali

[Grazia Azzali]: Credo che tutto parta dalla mia mente. Una mente che mi mente, perché è molto suggestionabile: capta sensazioni, musiche, parole che vengono da luoghi inesplorabili, che io stessa fatico a focalizzare. Non so mai da dove arrivino queste percezioni, a quale fonte si abbeverino. Non è la mente a crearle, perché creare significa dare forma, è un atto razionale. Le immagini, le idee arrivano da dimensioni imprecisate, lontane. Io credo che la mia mente sia collegata a quella di persone, cose, luoghi che non posso conoscere o perimetrare. Non riuscirei a spiegare altrimenti l’origine della mia arte. Può sembrare un discorso astratto, ma credo davvero che la mente umana sia multidimensionale, capace di connettersi con altri universi.

La tua è un’arte intessuta di sensazioni. Molte, come dici, provengono da te, da connessioni e corrispondenze cosmiche, altre mi portano a interrogarti sull’ambiente, sugli studi che hai compiuto. Credi abbiano avuto un peso?

Mi sono spesso chiesta se il luogo in cui vivo o lavoro potesse avere qualche interazione con la mia capacità percettiva. Non è così. La serie delle Torri, una delle ultime, l’ho realizzata in una falegnameria, uno spazio del tutto slegato dall’intuizione, da quello che è stato il processo creativo. Ho capito, allora, che si tratta di proiezioni della mente, di idee non pensate, non ricercate. È come se fossi investita da una folata di vento, da qualcosa che non ti aspetti eppure c’è, si materializza in quell’istante. Chissà da dove vengono queste sensazioni, questi suoni. Io riesco a portarli qui, nella dimensione che noi viviamo, ma so che hanno origine altra, a cui è impossibile risalire.

In questo sguardo, nel tuo sostare tra realtà e appercezione, c’è tanto del Surrealismo, dei sogni alchemici di Leonora Carrington e Remedios Varo…

La differenza sta nella dimensione attraversata. Loro lavorano sul sogno, si muovono sul limite del giorno, mentre io sono qui, in uno spazio che non è onirico ma reale. Nelle mie opere è la coscienza a parlare, quella coscienza che ri-porta le proiezioni della mente. Ciò che è oltre il visibile, oltre il razionale. Io porto in questa dimensione ciò appartiene ad altri mondi, ma non c’è nulla di onirico, nulla di immaginato. È un processo, se vogliamo, affine ai principi della Metafisica, ma resta comunque cosa altra, indefinibile. Un potere stra-ordinario, che non tutti possiedono.

Ti trovi in una zona di transito, più simile alla rêverie, all’abbandono percettivo.

La rêverie, esatto, intesa tuttavia non come sogno ad occhi aperti, non come allucinazione, ma come capacità di assorbire le sensazioni, di tradurle senza dettami o regole. Riesco a cogliere ciò che è oltre il velo del razionale. È una questione di vibrazioni, come qualcosa che si agita sottopelle.

Svelare l’invisibile, potrebbe essere la formula più adatta a definire questo processo.

Mostrare ciò che gli altri non vedono per abitudine, perdita della sensibilità o condizionamenti sociali. È come se avessi una sensibilità altra, capace di entrare in contatto col cosmo. Non è un caso che abbia intitolato una serie di opere Éidōla, per mostrare quell’attitudine, insita in pochi soggetti, di dar vita a rappresentazioni mentali così vivide da essere quasi percettive. La mia è un’arte molto sensoriale, che incrocia i sapori, gli umori, i profumi. In qualche modo è come se riuscissi a dare corpo anche a questi aspetti, a far sentire persino ciò che è inodore.

È qualcosa di profondamente tuo, al di là delle lezioni assorbite, dei riferimenti artistico-letterari.

Proprio così. Potrei citare L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, un testo fondamentale per misurarsi con il concetto di anima e di impalpabilità, ma si tratterebbe di una suggestione ‘strumentale’, di un esempio utile all’ascoltatore per orientarsi e capire. Il resto sono immagini che mi sovrastano, che si susseguono, e non c’è alcuna temporalità in questo, nessun ordine cronologico. Si comportano come le matriòske: una dentro l’altra. Parlando degli Éidōla – 21 grammi, un amico fotografo ha usato la definizione “caleidoscopio di anime”. È proprio così, perché il trionfo di piume e colori consente di focalizzare immagini sempre diverse, continuamente ricomponibili. Ora ho aggiunto le sfere che rappresentano il mondo platonico. È stata un’esigenza, il bisogno di dire – trasmettere – qualcosa di più. Ecco, l’assenza di una linearità temporale si esprime perfettamente qui; questi oggetti un giorno perderanno le piume svelando un ‘volto’ nudo, le vestigia di un tempo riavvolto su se stesso.

Nella serie del ‘doppio’, invece, c’è il discorso sul corpo, una riappropriazione di quanto è fisico dopo decenni di ‘censura umorale’, di cappio della razionalità.

Io riconduco il doppio alla dimensione sessuale, carnale. Lo intendo anche come daimon, come il demone del sesso, ovvero ciò che incarna l’attrazione per il proibito, per quanto viene represso pur essendo necessario – vitale. La condizione di sdoppiamento è tipica dell’individuo borghese, ma non tutti sanno coglierla, si preferisce occultare gli stimoli, porli su piani ‘addomesticati’. Io stessa mi libero attraverso l’arte, ma so che il daimon spingerebbe per strade altre, inammissibili. Anche qui la mente mente, costruisce delle immagini, degli stimoli. Io cerco di riportare tutto al piano della coscienza, e così facendo identifico il doppio, la sua forza altamente sovversiva. Quello che faccio, e voglio continuare a fare, è dominare la mente, non lasciarmi sovrastare da essa.

Anche le tue fotografie risentono di questo processo?

La mia esperienza di fotografa è segnata dal ‘limite’ del soggetto reale. Quando si scatta occorre necessariamente tener conto di chi si ha davanti, ridimensionare i propri slanci nel rispetto della persona. Tuttavia, bisogna guardare oltre quelle foto. Dietro la superficie ci sono elementi disturbanti, tracce di significati altri, che solo un occhio attento può cogliere. È ancora il doppio a dominare la mia fotografia: figure duplicate, ombre, proiezioni di ciò che la società condanna. Si tratta di scatti che molto devono a L’uomo senza qualità di Robert Musil, un testo per me centrale. Anche qui, come per Kundera, non si tratta di replicare immagini o insegnamenti, ma di fornire le coordinate per orientarsi. È come se io fossi entrata nella mente di Musil, come se avessi istituito un ponte tra le nostre anime. Da questa particolare sensibilità nascono le mie proiezioni.

E ora, c’è qualcosa a cui stai dando corpo?

Il prossimo lavoro sarà un progetto fotografico legato ancora al tema del doppio e, soprattutto, al concetto del ‘nulla’. Sarò io al centro della performance: in sedia a rotelle mi porrò in una condizione di handicap per rappresentare e sentire con il mio corpo un disagio reale, che può e deve trovare voce. Ho già delle visioni in merito, sensazioni che cominciano a materializzarsi.

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