di Fabiana Maiorano.
Questo articolo è parte della rassegna “Altre Ecologie – Quando l’Arte protegge il Pianeta“
Evento in partnership con “La Nuova Ecologia“

Quando affrontiamo la questione del cambiamento climatico puntiamo il dito verso i disastri naturali attuali, dimenticando che il problema si estende a ritroso nel tempo, affondando le radici nella massiccia industrializzazione di ‘700 e ‘800 basata sull’utilizzo dei combustibili fossili, i quali hanno prodotto importanti emissioni di gas serra nell’atmosfera.
È del 1856 il prezioso articolo “Circumstances Affecting the Heat of the Sun’s Rays” (“Circostanze che influenzano il calore dei raggi solari”) della suffragetta e scienziata Eunice Newton Foote, rimasta sconosciuta fino al 2011, quando il geologo Raymond Sorenson la riscoprì e ne segnalò l’importanza per la storia della climatologia 1 .
Questa storia della climatologia è una parte di narrazione della nostra vita sulla Terra e l’arte è da sempre custode di frammenti di questa storia, grazie alla sua capacità di comunicare senza parole, diventando nel tempo una potente alleata nella lotta contro la crisi climatica.
Abbiamo tutti presente quella romantica foschia che avvolge i paesaggi di Monet, Turner e di tanti altri impressionisti…secondo un recente studio pubblicato su Pnas (Proceeding of the National Academy of Sciences) si tratterebbe di inquinamento. 2 Ciò non dovrebbe stupirci dato che l’arte si è da sempre fatta carico di rappresentare la realtà e moltissimi pittori dell’epoca erano particolarmente sensibili ai giochi di luce e ai mutamenti ambientali; pensiamo ad esempio a “Pioggia, vapore e velocità” di Turner, alla serie di Monet sul Parlamento di Londra, a “L’urlo” di Munch 3 o al “Sorgere della luna” di Van Gogh. Loro, insieme a molti altri, hanno, probabilmente senza averne coscienza, dato il via ad un intenso connubio tra arte e scienza climatica che persiste tutt’oggi.
Facendo un balzo in avanti nella storia e nella storia dell’arte, la consapevolezza della crisi climatica ha spinto gli artisti ad esplorare nuovi linguaggi espressivi e a riflettere sul ruolo dell’uomo nell’ecosistema. A tal proposito, la Land Art ha spesso creato una riflessione sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente, giocando spesso un ruolo chiave nell’affrontare la crisi climatica, denunciando i pericoli del cambiamento e sensibilizzando il pubblico grazie all’utilizzo di elementi naturali che stimolano la riflessione sul nostro rapporto con l’ambiente.
Fu la mostra “Earth Works” alla Dwan Gallery di New York del 1968 a riunire i lavori di Walter De Maria, Richard Long, Robert Morris, Dennis Oppenheim, Robert Smithson e altri, a segnare l’inizio della famosa corrente artistica che contemplava la connessione degli artisti con la natura e l’esplorazione del rapporto tra arte e ambiente.


Uno degli artisti più influenti del XX secolo che riservò già dagli anni ‘70 un’attenzione profetica verso le tematiche ambientali fu Joseph Beuys. Attivista e sostenitore della tutela ambientale, parte del suo lavoro riflette un’acuta sensibilità verso le problematiche ecologiche e la necessità di un rapporto armonioso tra uomo e natura. Attraverso l’utilizzo di materiali e oggetti poveri come feltro, grasso,terra, legno, juta, oggetti dismessi e materiali vivi come alberi e piante, ha realizzato opere come “Pelt Corner” (1968) e “The Honey Pump” (1977) che esploravano il rapporto tra uomo e natura e la necessità di un uso sostenibile delle risorse.
Il suo impegno a tutela dell’ambiente lo portò a dare un contributo essenziale alla fondazione del partito politico ambientalista Bündnis 90/Die Grünen in Germania. Nel 1985, fondò la Free International University for Creativity & Interdisciplinary Research (FIU), un’istituzione dedicata alla promozione di ricerche e azioni volte a risolvere le problematiche ecologiche e sociali. Considerato un artista-sciamano per la sua volontà di costruire una coscienza ambientale nel mondo della cultura, ha realizzato una serie di storiche performance con finalità di sensibilizzazione, come ad esempio quella del 1984, quando si cosparse di grasso e miele per identificarsi con la terra e richiamare l’attenzione sulla sua vulnerabilità. Un paio d’anni prima, in occasione di Documenta 7, realizzò “7.000 Oaks” piantando settemila querce in giro per la città di Kassel. Ci vollero diversi anni per completare il progetto, ma gli alberi sono ancora lì, sono bosco, a conferma del forte impatto che Joseph Beuys ha avuto sul mondo dell’arte e sul modo di pensare della società in generale.
La sua arte voleva promuovere un cambiamento significativo, sottolineando quanto la cultura si potesse fare strumento per il cambiamento positivo.
La sua visione ha ispirato generazioni di artisti (a lui contemporanee e non) ad esplorare le tematiche ecologiche e ad utilizzare l’arte come promotrice per un cambio di mentalità.
Ad esempio, vale la pena ricordare l’operazione del 2007 di Ackroyd e Harvey, che hanno piantato in diversi spazi pubblici del Regno Unito le ghiande degli alberi di Beuys a Kassel.
Il simbolico atto del “piantare” è diventato la manifestazione più semplice e diretta per sottolineare l’impegno degli artisti schierati per la tutela dell’ambiente. Emblematica, in tal senso, l’operazione di Agnes Denes del 1982, quando seminò e coltivò un campo di grano su un lotto di terra a sud di Manhattan, a Bittery Park, a pochi isolati dal World Trade Center. L’operazione intitolata “Wheatfield – A Confrontation” proponeva un dialogo tra l’uso del territorio, la sicurezza alimentare 4 e il rapporto tra natura e umanità. La combinazione del suolo fertile con le icone della globalizzazione e dell’economia del Financial District, costituiva, inoltre, lo scontro tra due approcci alla prosperità incompatibili tra loro. Oggi l’artista, ormai novantatreenne, è ancora attiva e il suo campo di grano è comparso ai piedi dei grattacieli di MIlano nel 2015 per sottolineare ancora una volta la complessa relazione tra natura e città e quest’anno è una delle opere più simboliche di Art Basel 2024.



Più o meno negli stessi anni della Denes, l’artista americano Alan Sonfist lavorava con elementi naturali, alberi o piante, realizzando installazioni in contesti sia urbani che rurali. Uno dei suoi interventi più famosi è stato “Time Landscape”, nel Greenwich Village di New York, dove in un lotto di terra trapiantò vegetazione autoctona di quel luogo risalente all’epoca precoloniale. La piccola foresta è tutt’oggi ricca di varietà di piante, in linea con la volontà dell’artista di erigere una sorta di memoriale naturale che commemora una natura annientata dalla città.


Nel 1991 Mel Chin realizzò “Revival Field” in collaborazione con l’agronomo Rufus Chaney. Insieme scolpirono con le piante il paesaggio di un’ex discarica nel Minnesota. La vegetazione utilizzata è in grado di estrarre i metalli dal terreno contaminato, provando l’efficacia di una bonifica ambientale a basso impatto e costi ridotti 5 . Nel 2018 collaborò con Microsoft per la creazione di “Unmoored”, un’app digitale che esplorava un futuro segnato dallo scioglimento dei ghiacciai e una Time Square sommersa visitata dagli utenti attraverso i cellulari.

La questione ambientale toccò anche il movimento dell’Arte Povera, e in Italia abbiamo un buon esempio di artista che negli anni ha lasciato la traccia del passaggio dell’uomo sulla natura: Giuseppe Penone. Attraverso interventi come “Continuerà a crescere tranne che in quel punto” (1968-2003), l’artista ha esplorato i concetti di trasformazione e fluidità, riflettendo sulla precarietà della vita e l’evoluzione continua di tutte le cose. Nell’opera una mano di bronzo stringe il tronco di un albero, che col tempo ha parzialmente inglobato la natura, sottolineando come questa muti al passaggio dell’essere umano.
Come quelle di Penone, anche le opere del tedesco Nils Udo meditano sulla precarietà della natura. Nel 1973 l’artista realizzò “Hommage à Gustav Mahler”, spiegando che si trattava di un’opera assemblata manualmente e destinata a decomporsi gradualmente.
A differenza di questi due ultimi artisti citati, ai coniugi Newton & Helene Mayer Harrison non interessava l’arte concettuale e la simbiosi dell’uomo con l’elemento naturale. La loro era indignazione e nel 1970 iniziarono la serie “Survival Pieces”, ognuno dei quali proponeva un’alternativa a un sistema di produzione alimentare. Furono tra i pionieri dell’Eco-Art, tra i primissimi ad affrontare la questione della crisi ambientale consapevolmente; hanno creato opere collaborative con la partecipazione di scienziati, ecologisti, urbanisti e comunità locali e negli anni ‘90 fondarono l’Harrison Studio e Associates.
Sulla stessa scia dei coniugi Harrison troviamo il designer, artista e regista David Buckland, che dal 2001 dirige il progetto “Cape Farewell”, creato per promuovere una nuova narrativa e una cultura dei cambiamenti climatici attraverso collaborazioni con artisti, ricercatori e divulgatori.
A proposito di cultura dei cambiamenti climatici, merita certamente una menzione l’installazione d’arte pubblica “High Water Line” realizzata nel 2007 dall’artista ambientale americana Eva Mosher. Con l’ausilio di mappe topografiche ed immagini satellitari, questo progetto prevedeva la creazione di una linea di gesso blu nelle zone tra Brooklyn e Manhattan, ad indicare le zone che sarebbero state inondate se il livello del mare fosse aumentato a causa del cambiamento climatico. L’opera mirava a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento e si trasformò in un vero e proprio happening collettivo grazie alla partecipazione della cittadinanza alla realizzazione.



Nei primi anni del 2000 l’interesse di Olafur Eliasson per l’ambiente si manifestò in diverse sue opere, in cui spesso utilizzava (e lo fa tutt’oggi) elementi naturali, come luce, acqua e ghiaccio, per esplorare temi legati alla sostenibilità, al cambiamento climatico e al nostro rapporto con il pianeta. È diventata iconica l’installazione “The Weather Project” del 2003 alla Tate Modern di Londra, in cui i visitatori erano immersi in una luce artificiale e nebbia diffusa, invitati a riflettere sulla natura effimera dei fenomeni naturali e sul nostro posto all’interno di essi. Nel 2014, nella piazza del municipio di Copenaghen Eliasson espose per la prima volta “Ice Watch” (realizzata in collaborazione col geologo Minik Rosing), composta da 12 blocchi di ghiaccio provenienti dal mare della Groenlandia. Disposti a orologio e lasciati sciogliere lentamente, l’opera attirava l’attenzione sulla terribile realtà dello scioglimento dei ghiacciai. “Ice Watch” venne riproposta a Parigi l’anno dopo, in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, poi a Londra.

Nel 2017, dalle acque del Canal Grande di Venezia spuntarono due gigantesche mani in resina che sorreggevano Palazzo Ca’ Sagredo (o ci si aggrappavano?). Si trattava di “Support”, l’opera di Lorenzo Quinn che puntava l’attenzione sull’innalzamento del livello del mare, minacciando l’incolumità del patrimonio della città.


Le intricate relazioni tra arte, scienza, natura e cosmo sono esplorate dalle installazioni immersive e site-specific dell’artista argentino di fama internazionale Tomàs Saraceno. Per quanto riguarda la tematica che stiamo affrontando, vale sicuramente la pena menzionare il progetto “Aero(s)cene: When breath becomes air, when atmospheres become the movement for a post fossil fuel era against carbon-capitalist clouds” 6 presentato alla Biennale di Venezia nel 2019. Si compone di due opere: l’installazione sonora “Acqua Alta: En Clave de Sol” che prende spunto dai sistemi di allarme della città di Venezia in caso di acqua alta. L’opera moltiplica notevolmente questi segnali come se le maree avessero ormai preso il sopravvento, facendosi premonitrice di una Venezia del futuro, sommersa dalle acque a causa dei forti cambiamenti climatici. A quest’opera si aggiunge la scultura fluttuante “On the Disappearance of Clouds” , che presenta delle strutture a grappolo che rappresentano le “nuvole cattive” fatte di emissioni gassose inquinanti. Questa scultura fa da cornice inquietante ad un paesaggio marittimo e fluttua col vento, dunque in simbiosi con le onde del mare, rendendo evidente il legame tra aria, acqua, cielo e terra 7 .

Negli ultimi anni abbiamo assistito alle cosiddette “opere che si sciolgono” ed è stato l’artista austriaco Alper Dostal l’ideatore di “Hot Art Exhibition”, un progetto che riprende le opere dei big della storia dell’arte come Da Vinci, Picasso, Mondrian, Van Gogh, Dalì e altri, elaborate digitalmente mentre si sciolgono come se esposte ad un calore estremo e senza possibilità di condizionamento. La vernice che cola disastrosamente sul pavimento vuol sensibilizzare l’opinione pubblica sul cambiamento climatico e sul suo potenziale impatto sul patrimonio culturale.
Arriva da Firenze l’arte di Alessandro Ricci, laureato in scienze naturali, che utilizza per le sue opere lo smog, prelevando con dell’ovatta bagnata d’acqua le polveri sottili che a causa dell’inquinamento si depositano su monumenti ed edifici. Nel corso di un’intervista televisiva nel 2017 affermò di sentirsi più ecologista che artista e che con le sue opere vuole lanciare il messaggio che a Firenze c’è così tanto smog che ci si possono fare i quadri 8 .
Sicuramente quest’ultimo esempio riportato non riguardi solo il capoluogo toscano, come i nomi citati in questo articolo sono solo una fetta degli artisti che attraverso la creatività hanno denunciato, in passato come oggi, le problematiche ambientali, lanciando messaggi drammatici ma necessari per smuovere la coscienza collettiva e ispirare un cambiamento positivo.
Fabiana Maiorano
Immagine in evidenza
Wheatfield – A Confrontation Battery Park Landfill, Downtown Manhattan – with Agnes Denes Standing in the Field ©1982 Agnes Denes
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Questo articolo è parte della rassegna “Altre Ecologie – Quando l’Arte protegge il Pianeta“
Evento in partnership con “La Nuova Ecologia“
Note
- Eunice Foote, Circostanze che influiscono sul calore dei raggi del sole (1856), trad.Bruna Bianchi, DEP deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, n.48\2022, Università Ca’ Foscari, Venezia.
- Costanza Giannelli,Altro che magica foschia, nei quadri impressionisti c’è lo smog, 2023, LaSvolta.
- A differenza di quanto di possa immaginare dal dipinto, l’uomo ritratto non sta urlando ma si sta coprendo le orecchie perché sente l’urlo della natura che gli viene addosso. A precisare è il commento all’opera dello stesso Munch: «Una sera camminavo lungo un viottolo in collina nei pressi di Kristiania – con due compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima. Il sole calava – si era immerso fiammeggiando sotto l’orizzonte. Sembrava una spada infuocata di sangue che tagliava la volta celeste. Il cielo era di sangue – sezionato in strisce di fuoco – le pareti rocciose infondevano un blu profondo al fiordo – scolorandolo in azzurro freddo, giallo e rosso – Esplodeva il rosso sanguinante – lungo il sentiero e il corrimano – mentre i miei amici assumevano un pallore luminescente – ho avvertito un grande urlo ho udito, realmente, un grande urlo – i colori della natura – mandavano in pezzi le sue linee – le linee e i colori risuonavano vibrando – queste oscillazioni della vita non solo costringevano i miei occhi a oscillare ma imprimevano altrettante oscillazioni alle orecchie – perché io realmente ho udito quell’urlo – e poi ho dipinto il quadro L’urlo (fonte Wikipedia)».
- «…il grano, fonte di nutrimento e materia di scambio, venne poi raccolto e inviato in ventotto città del mondo, mentre i semi vennero piantati in vari luoghi del pianeta.» M.Cardone, “Emergenza? No disastro. Cosa dice l’arte a proposito del clima”, Artribune n.54, marzo\aprile 2020, p.60.
- M.Cardone, “Emergenza? No disastro. Cosa dice l’arte a proposito del clima”, Artribune n.54, marzo\aprile 2020, p.62.
- Un nome lunghissimo che significa: “Aero(s)cene: Quando il respiro diventa aria, quando le atmosfere diventano il movimento per un’era post-combustibile fossile contro le nuvole capitaliste di carbonio”.
- Artbooms, “Acqua Alta, la preveggente installazione di Thomàs Saraceno a Venezia”, nov. 2019.
- “L’artista che disegna con lo smog”. Intervista di Tiziana Panella ad Alessandro Ricci, Tagadà 2017.