
Quando, nella primavera del 1958, molte sparse testimonianze dell’arte lombarda dal Tre al Quattrocento furono per la prima volta raccolte nel Palazzo Reale di Milano, si manifestò spontanea l’esigenza, subito condivisa dagli Enti che avevano patrocinato l’iniziativa, di documentare nel modo più largo quell’eccezionale e purtroppo temporanea rassegna di dipinti e di codici miniati, cui si legavano scelti esempi di vetrate, oreficerie e sculture.
Dall’ingente materiale fotografico allora radunato sono state appunto tratte le tavole che compongono questo volume: scelte senza obbligo di compiutezza illustrativa ma piuttosto col fine di offrire, in aggiunta al Catalogo, una sorta di sintesi essenziale della Mostra mediante una sequenza di immagini, rare le più e per buona parte arricchite dal prestigio del colore.
Nel porre in atto tale proposito si è naturalmente procurato non solo di dar maggior rilievo alle cose più alte ed esemplari, ma altresì di puntare di preferenza sulle opere di meno facile accesso, perché custodite in pubbliche o private raccolte remote dalle sedi originarie, oppure destinate per loro stessa natura — come molti manoscritti miniati — ad una privata, gelosa consultazione.

E poiché Mostra e libro recano la stessa insegna — Arte lombarda dai Visconti agli Sforza — converrà anzitutto chiarirne, sgombrando i possibili equivoci, il legittimo significato.
Dai Visconti agli Sforza, si sa, la storia della signoria milanese è quanto mai ricca di eventi, in pace e in guerra; ed i confini dello Stato si ampliano e si restringono variabilmente, a seconda delle prospere od avverse fortune.
Alla morte dell’arcivescovo Giovanni Visconti (1354) lo stato visconteo comprendeva già la Lombardia odierna, tranne il Mantovano; quasi tutta la Liguria; un buon tratto del Piemonte occidentale e dell’Emilia, Bologna inclusa.
Cinquant’anni dopo, al termine della grande avventura di Gian Galeazzo (1402), le insegne del Biscione si erano spinte nel Veneto — da Verona a Padova a Belluno — e fin nell’Italia centrale, toccando Pisa, Siena, Grosseto, Perugia.
Sopraggiunto poi il crollo dello Stato, Filippo Maria ne operava a fatica la restaurazione, di nuovo annullata, alla sua scomparsa, da un rapido contrarsi delle frontiere del Ducato; finché la nuova Signoria sforzesca non riuscì ad assicurargli, dalla Sesia all’Adda, un più stabile e duraturo assetto.

Porre in rapporto con le fortune politiche e territoriali dei Duchi di Milano le vicende artistiche svoltesi in Lombardia, che sole qui interessano, non avrebbe ovviamente senso alcuno, neppure nei riguardi di territori contigui, ma ricchi di proprie tradizioni figurative come Verona.
Nemmeno gioverebbe, anche senza voler divagare dal tema dell’arte propriamente lombarda, calcar troppo l’accento sulle persone dei signori che riducendo Milano alla loro esclusiva obbedienza avevano spento nella sempre prospera città le memorie ancor verdi delle libertà comunali.
Non che ai mèmbri più cospicui delle due dinastie debba attribuirsi unicamente la funzione di scandire, a modo di «ordinate» di diagramma, il lungo percorso cronologico che si snoda dall’epoca di Azzone all’aureo tramonto della corte del Moro.
Anche troppo noti, intatti, sono i titoli di committenti e mecenati di primissimo rango quali furono, soprattutto, il savio Azzone, in rapporto assiduo con artisti toscani, da Giotto a Giovanni di Balduccio; Gian Galeazzo, dai gusti esotici e raffinatissimi; il primo Sforza, uomo nuovo e pur legato all’aristocratica tradizione cortese, e dopo di lui Galeazze Maria, che fu amico dei Medici e non comune intenditore di cose musicali; infine il malfido ma splendido Ludovico.
Rimane tuttavia ferma l’opportuna norma di non confondere con i presupposti sociologici ed economici i fatti artistici, nei loro termini concreti, ne far pesare oltre misura le richieste dei committenti sulle vicende, in stretto senso, delle cose dell’arte, che gli artisti — l’ha rammentato anche di recente Roberto Longhi — sempre sbrigarono meglio tra loro.
Altro grave errore sarebbe quello di intendere i nomi delle due dinastie principesche a guisa di simboli di altrettante, ed opposte, posizioni di gusto: quasi che, col passaggio di poteri dai Visconti agli Sforza, appena mediato dall’effimera Repubblica Ambrosiana, si compisse l’abusato ed alquanto mitico trapasso dal gotico alla nuova età dell’arte, e l’«autunno del medioevo» desse improvvisamente luogo alla primavera della rinascita…
Gian Alberto Dell’Acqua
tratto dal volume: “Arte lombarda – Dai Visconti agli Sforza”
Testi di Gian Alberto Dell’Acqua
Ed. Comune di Milano – Cariplo
1959