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Che male c’è nell’avere i sette nani in giardino? (citando Beniamino Placido). La favola scintillante di Jeff Koons in mostra a Firenze

di Paola Milicia.

Che male c'è nell'avere i sette nani in giardino? (citando Beniamino Placido) - La favola scintillante di Jeff Koons in mostra a Firenze

Avete presente quel sarcasmo che monta ogni qualvolta ci imbattiamo nelle statuine di Biancaneve e i sette nani in terracotta piantate nel giardino del vicino, garanti di armonie domestiche fastidiosamente felici? Cosa c’entra questo con la mostra “Shine” di Jeff Koons? Direi molto, e non per quel rimando sottilmente erotico e giocoso che pure ricorre nelle creazioni dell’artista, piuttosto, perché non c’è niente di più banale e di cattivo gusto di una schiera di nani di terracotta salvo, poi, constatare che lo stesso Koons è andato ben oltre nella serie Banality (appunto), o in alcune opere di Made in Heaven, o di Antiquity, riproponendo la sciatteria bucolica delle statuine di porcellana Hummel Goebel, quelle che, a un certo punto degli anni Ottanta, hanno fatto irruzione in Italia sotto forma di bomboniere della prima comunione, occupando poi un posto di tutto rispetto nella vetrinetta della nonna.

Da questa schiera di personaggi dalle faccine paffutelle, sorridenti e innocui, che tutto sono fuorché artisticamente belli, ci assale, anzitutto, un uso straordinario di tutti i parametri e i luoghi comuni dell’irrazionalismo contadino, e della middle class. Anche quando si tratta di guardare criticamente alle opere meno direttamente favoleggianti e più mature (Balloon Dog, Balloon Monkey), nonostante la promessa di una perfezione tecnica senza eguali e di una voluminosa rappresentazione che da sole suscitano un primo moto di ammirazione, l’effetto di ricaduta nella semplicità e nelle atmosfere festose delle sagre di paese, con tanto di palloncini e orsacchiotti, non si dissolve mai del tutto, al contrario.

Il punto, tuttavia, non è quello di stabilire un codice estetico univoco tra quello che è bello e quello che non lo è, ma di rinvenire, e definire, quella prassi artistica, o visione della storia, o estetica, che più o meno manifestatamente, ricorre nei quarant’anni di carriera dell’artista raccolti nella mostra “Shine” (lucentezza, splendore) a Palazzo Strozzi di Firenze. E qualcosa, più di una, mi riporta alla definizione di kitsch formulata da Milan Kundera nel 1984: “Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. […] Il Kitsch fa spuntare, una dietro l’altra, due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: – Come sono belli i bambini che corrono sul prato! -. La seconda lacrima dice: – Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato! -. È soltanto la seconda lacrima a fare del Kitsch il Kitsch. La fratellanza di tutti gli uomini sulla terra sarà possibile solo sulla base del Kitsch”.

Proprio non si capisce perché Jeff Koons si difende così tanto dalle accuse di chi lo definisce un artista kitsch, se nel messaggio di democratizzazione della banalità di cui si fa portavoce, nella sua superficialmente incoraggiante evocazione di un’umanità gaudente e commossa, nel senso ottusamente fiducioso che ripone nell’amore e nella gioia, ci sia dietro nientepopodimeno che la radice dei meccanismi mentali ed estetici del kitsch.

Quella di Koons è davvero una crociata di igienizzazione della monotonia dalle dimensioni colossali: un motore di lettura comportamentale e artistica che si àncora alla crisi dell’essere americano che si crede padre fondatore (per usare le parole della poetessa premio Nobel, Louise Glück in “American Originality”), o almeno, generatore del nuovo (che nuovo non è) dagli effetti replicabili all’infinito come un nastro continuo che sposta il passato e la tradizione dentro l’idea di un futuro duraturo e rassicurante, proprio ove viene ripetuto il nulla, il vuoto, il tempo lento, il morto. Il nuovo per gli americani, va detto, è una specie di adesivo incollato su una statua, su una sedia, su un oggetto comune (concetto che si estende perfettamente a città e luoghi come la riproduzione di Venezia a Las Vegas), e più si è alla ricerca del nuovo, più ci si scontra con l’illusione che lo sia; più la crisi individuale e artistica si arricchisce di una difesa dei propri gesti e progetti creativi, svelandone la profondità e l’onestà delle intenzioni, più spuntano ornamenti di natale, cuori giganti che ricordano cioccolatini di San Valentino, elefantini policromatici, uccelli in acciaio che sembrano saliere napoletane.

Sono aspetti di un dilemma e di un conflitto continuo che fanno vivere agli artisti americani quel complesso di inferiorità verso l’arte classica del vecchio continente, fanno rivivere il problema dell’originalità e dell’arte “nuova”, tanto che le citazioni si sprecano in mitiche e vaghe nozioni: Masaccio, Donatello, Michelangelo e molti altri di cui, spesso, si creano delle brutte copie convinti di aver devoluto il proprio genio alla causa.

Ma niente di tutto questo impatta sul vigore di Jeff Koons. Penso sia vero il contrario. Koons piace proprio per la retorica lucidata a festa, per la sua arte divertita e divertente che attinge allo scorrere di un tempo lento delle domeniche al parco divertimenti, per la rappresentazione distesa e ottimista, a cui si affianca, per fortuna, un processo produttivo minuzioso, sofisticato e perfetto, di cui peraltro siamo affascinati.

Dai folgoranti colori di Balloon Dog, alle iconiche immagini di Hulk, al Rabbit costruiamo un percorso di igienizzazione degli oggetti consumati dall’ovvietà, attraverso il tema della riflettenza – evidentemente suggerita dalla perfetta levigatura delle superfici in acciaio inossidabile lucidate a specchio di molte opere visitabili in mostra – che tuttavia si dota di una recondita implicazione di mimesi da parte dell’osservatore. Come afferma lo stesso Koons: “Il lavoro dell’artista consiste in un gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte”.

Sarà, ma riflettenza, lucentezza da cui il titolo della mostra, fa pensare, ancora una volta, alle stanze degli specchi di un grande circo umano, a un’atmosfera forzatamente glitterata e made-up, al fine ultimo di volerci tirare per forza dentro un mondo fastidiosamente colorato, allegro, dopato di buone intenzioni, da essere quasi finto, di seconda mano, e per questo capace di destarci quel senso di riluttanza verso opere che se non si mostrano all’altezza della tradizione da cui proveniamo (nani a parte), diventa pura esibizione di un simulacro di autenticità e originalità.

Detto, comunque, che non c’è nulla di cui vergognarsi nel tenere i sette nani di terracotta nel proprio giardino.

Paola Milicia

La mostra a Palazzo Strozzi: Jeff Koons. Shine

Photo: Ela Bialkowska – OKNO studio