
Nuovi acquerelli dal cuore di vetro occupano la zona d’ombra di un anno, segnano con precisione un percorso obliquo e solitario.
Sono pietre da succhiare, ossi di pesca, ventagli, paesaggi vuoti e tersi, veli di colore rapidamente assorbiti, poco pigmento depositato sulla geometria di un disegno congelato.
Sono assi da giocare, munizioni, provviste, pratiche d’affetto, documenti d’attenzione.
Cedono alla tentazione fredda senza opporre resistenza, paghi di silenzio e discrezione, si appoggiano sulla linea che continuamente divide presente e futuro simili all’acqua e al marmo.
Ora puoi raccontare a qualcuno che ti voglio bene ma che non posso ubbidire.
Tuffai più un sussulto, due dita sotto l’ascella in un abbraccio rapido come un bicchiere che cade, un sorriso sghembo, un cuore arabo.
Il telefono in casa tua suona a lungo, riempie le stanze con insistenza, insegue l’anima e raggiunge un’ombra, attraversa monotono le pareti, restituisce ansia nell’immediato laconico ritorno.
Una chiamata di correo vana e palpitante che serve un vizio inguaribile e riflette un enigma.
È arrivato il tempo dell’assenza annunciato da un rapido scorrere di nuvole sul pantano.
Nuvole mobili che coprono tutto l’orizzonte, come onde di piena addensano pece e ruggine, si arricciano in alto perdendo nei vortici stracci più chiari: se c’è un cielo per ogni sentimento, è quello dell’oblio, diffuso crepuscolo di una stagione che ci avrebbe voluto più attenti.
Ho calcolato le posizioni nella consuetudine, per le strade sotto gli uffici, tra le più ovvie necessità: la lezione ignorata vuole l’assenza al primo posto.
È arrivata senza rumore questa volta, a rimorchio del vento, ha segnato il terreno di carta stagnola, lanterne e bandiere come la festa di carnevale.
A nulla sarebbe servito pensarci prima, tutto si sa e nulla si sa vivere.
Così ecco giorni concatenati lungo impercettibili variazioni, accecati dalle persiane chiuse, diluiti nella ricerca di cibo e compagnia, poche le regole della sopravvivenza, poco di tutto e molto di niente.

Achille non raggiungerà mai la tartaruga, occupato come è ad avvolgersi su se stesso perde lentamente la nozione di spazio e viaggia nel tempo, frantuma i secondi in filamenti sottili, li deve vivere tutti nel suo spesso guscio.
È un viaggiatore catapultato avanti suo malgrado, non abbastanza veloce, non abbastanza lento, conquistato dalla solitudine a cui non sa rinunciare.
Guardiamolo scivolare per le strade del centro, dovrebbe stare a casa e non sempre ci riesce, ora è al tavolo la matita in mano un coltello infilato nel fianco, poco sangue nero mentre il pomeriggio si spegne senza portare buone notizie.
Al proprio destino non si fanno aggiunte e non c’è niente che fermi niente, intanto sì brucia di autocombustione e la notte non si dorme, le parole dei profeti scritte a caratteri di fuoco rischiarano il cielo, ma nessuno sa più indicare il confine tra la minaccia e la festa.
Siamo orfani e i maestri comunicano per mezzo di segni, celebrano mute offerte indecifrabili, spostano leggermente le braccia, le mani, dipingono bandiere di carta, tracciano disegni sull’acqua, sembrano distratti già dormono.
Sono fuggiti altrove lasciandosi dietro le nostre stanze, gli aeroporti, i luoghi dell’affetto.
Loro saprebbero sorprenderci rovesciando la logica che ci è familiare, restituendoci la capacità di vivere il tempo del sogno, costringendo un meno moltìplicato a un meno a restare meno, levandoci alla fine tutto anche il desiderio di desideri e il labirinto che abbiamo deciso di abitare.
Aimone Sambuy
Tratto dal catalogo: “Acquerelli di Aimone Sambuy”
Edizioni Galleria del Naviglio – Milano
Direttore Renato Cardazzo
Catalogo stampato in occasione della 723a Mostra del Naviglio, aprile 1980