Altre Ecologie - Quando l'Arte protegge il Pianeta

Il Midwest nella Fotografia di Graziano Panfili

di Paola Milicia.

C’è sempre una strana amarezza nelle opere di Graziano Panfili (Frosinone,1971), data per lo più dallo spettro di corpi e oggetti senza gioia o di una felicità rimandata, da spazi sospesi e disabitati, dal sentore di irrimediabile caducità, a cui si lega quel sentimento di nostalgia che allude anche al piacere – controverso e favoleggiante – di naufragare (nella memoria, nel dolore dell’agognato ritorno).

Le scene sono per lo più assediate dalla fisicità di oggetti antropomorfizzanti, capaci di accrescere il desiderio di riscoperta assieme a quello di abbandono in chi osserva le vestigia di una vita svanita: automobili d’epoca (dettaglio che si aggiunge all’esplicito legame con un passato affettivamente e criticamente rievocato), sedie, finestre, edifici, pareti, sono chiamati a ricomporre l’assenza di una stagione umana scaduta, e a recare un senso di evanescenza, assieme a quello destabilizzante di (ig)noto e di già vissuto. La possibilità di vita all’interno della scena che si presume da una luce accesa, o dalla presenza di un animale (spesso si tratta di un cerbiatto, messaggero di candore e abisso), di un oggetto qualunque fuori dal suo ordine naturale, infligge alla visione il sapore dolce amaro dell’attesa che la cultura occidentale ha introiettato, e forse, quello di un laico Armageddon (Cover Book, Paesaggio Italiano).

Le atmosfere ricreate, e certi tagli di luce, le giustapposizioni di colori, il procedere narrativo “a frammenti” di un racconto di cui non si conosce la trama, il fremito che certi spazi e personaggi riescono a provocare – tanto più camaleontici e spettrali appaiono, quante le loro possibilità di rivelazione e nascondimento -, sono gli elementi che svelano un legame fortissimo con la tecnica e il linguaggio del cinema anglo-americano, Hitchcock e Kubric, a cui si aggiunge, senza troppa discrezione, lo spettro del pittore Edward Hopper e della narrativa della beat generation: ci ritroviamo così nel midwest panfiliano fatto di luoghi deserti e sonnacchiosi, di insegne scolorite, di centri urbani abbandonati similmente americani, tra macchine parcheggiate nei vialetti di residenze estive, irrorate di una luce misteriosa e aliena.

© Graziano Panfili – “Happy days”

In Happy days la visione idealizzata degli anni Cinquanta e Sessanta è resa attraverso un corpo scenografico che allude a un palcoscenico: mobili in formica, capelli raccolti in boccoli, poster di Elvis Presley alle pareti, Ford Mustang e Cadillac, riescono a imitare perfettamente l’innocenza gioiosa e confortante del passato.

La ricerca di Panfili è in più di un senso una archeologia di una civiltà passata, e dunque, una ricordanza, ma anche una commemorazione di un mutamento improvviso o “in progress” calato sulle persone, sui luoghi e le cose, che impone loro un nuovo galateo di abitudini. L’universo narrativo dell’artista si presenta come un racconto antologico, dal forte potere demiurgico, basato su una visione della storia collettiva e personale che si sviluppa in una sequenza di scene che affrontano temi e concetti esistenziali come la fragilità della vita, la memoria, la malattia e la diversità (Angels) il senso di perdita e di smarrimento individuali e collettivi.

La fine di un’era preindustriale, del sogno italiano (parafrasando quello americano) che più di efficienza consumistica, narra di un senso di sopravvivenza, resistenza e conservazione al declino, la pandemia e una umanità tutta che si ferma: sono temi e condizioni scrupolosamente indagate dall’artista come riflessione sull’evoluzione del mondo contemporaneo (Covid, Islam Space, Transiberiana).

In un passaggio storico dove le priorità erano e (sono) quelle del documento, delle statistiche e dei bollettini di guerra al virus, Graziano Panfili salva la fiaba surreale del momento e con essa l’insegnamento, il monito all’umanità: le immagini della serie “Coronavirus: the risks of social alienation” e “Covid” pulsano per il vuoto irreale e apocalittico degli oggetti, delle persone, atte a riscrivere consapevolmente le abitudini e le relazioni, nel silenzio che le circonda, e in un rinnovato senso di distanza con il mondo.

I luoghi di Panfili sono tutti allo stesso modo luoghi di culto, in cui sono lo spirito umano, i pensieri spopolati, le pulsioni erotiche, i miti e le fiabe, l’arte e la politica a intrecciarsi silenziosamente creando una visione composita di realtà e irrealtà, di vicinanza e distanza, in cui l’integrità, pur corrosa dal tempo e apparentemente decadente non è anche sinonimo di perdita di dignità ma segreta solennità e sacralità capaci di commuovere.

L’intervista

[Paola Milicia]: C’è una urgenza alla contemporaneità nei tuoi scatti, pur partendo dal passato, da temi che solo formalmente attengono più a una civiltà e a una mitologia ormai decadute, salvo che nella memoria di alcuni, nei film e in certi prodotti dell’industria fashion. In questo momento storico, di guerra, di crisi energetica e ambientale, quali temi suscitano il suo interesse?

[Graziano Panfili]: Attualmente sto lavorando a un progetto sulla guerra in Ucraina vista attraverso le telecamere di sicurezza. Ho cominciato a monitorarle già alcuni giorni prima dello scoppio del conflitto, allertato da quanto preannunciavano i media, e ho scattato fotografie alle immagini riprese dalle telecamere meteo, da quelle utilizzate per controllare la viabilità e alle telecamere di sicurezza. È lavoro lungo in cui mi sto concentrando sulla fotografia “dell’occhio meccanico” che restituisce una finestra reale sul mondo contemporaneo senza l’intrusione umana.

Sempre in tema di urgenza alla contemporaneità, il tuo racconto procede per “incanto”, accompagnato da una delicatezza stilistica, mai sfacciata, o irruenta, ma dosata, rarefatta e in un certo senso fiabesca come a mitigare il disincanto della realtà che comunque irrompe nella tua scena. Sei capace di creare un’esperienza quanto più simile a quella cinematografica, quando sfidi a immaginare nuove narrazioni. Che rapporto hai con il linguaggio cinematografico? E con la fiaba?

Il cinema mi affascina da sempre, ancor prima della fotografia. E lo stesso vale per la pittura e il disegno. Sono sempre stato attratto dai movimenti artistici e da tutto quello che è per me ricerca ed evoluzione. Il linguaggio cinematografico mi permette di dare una forma visiva ai miei ricordi. È un’immagine che si materializza direttamente dalla mia mente, da frame, film, frasi, musiche, libri, ecc. È la messa in scena di un ricordo o di una fantasia.

Gesualdo Bufalino scrisse “pericoloso entrare senza frustino nella gabbia dei ricordi. Mordono”. Ricordare è amare di nuovo… E la tua fotografia è una archeologia del tempo che scorre. Perché questo legame col passato e con la caducità del tempo? Cela un messaggio preciso che vuoi raccontare?

I ricordi sono le mie cellule e come tutti siamo fatti di questo. Non potrei fare a meno di citarli attraverso la fotografia, ma non per questo smetto di rigenerarmi attraverso studi e nuove visioni. Non amo sedermi sul passato e fare solo quel tipo di fotografia. Amo il passato così come amo rincorrere nuovi linguaggi e argomenti.

C’è una predilezione a fare degli oggetti, degli spazi, dei paesaggi il tuo “soggetto ideale”. Sembri meno interessato a immortalare le persone ma semmai il loro ambiente e la loro realtà. C’è una ragione precisa in questa scelta?

L’ambiente è la persona, è il suono, l’odore. Delle persone importanti che hanno fatto parte della mia vita e non ci sono più, mi rimane la stanza, i cassetti, i maglioni, le foto, le lettere. E tutto questo “ricordo” ha una voce che mi permette di non dimenticare. Mi piace molto che “l’intorno” sia l’interno di un uomo.

Come descriveresti la tua fotografia a qualcuno che non l’ha mai vista?

Con una mia citazione: “Io sono le foto che scatto“.

Stai lavorando a qualche progetto di cui vuoi darci un’anticipazione?

Oltre al progetto sulla guerra in Ucraina, sto attraversando Roma a piedi con un videomaker e un collega fotografo. Raccogliamo foto e testimonianze, un carotaggio orizzontale fotografico e videointerviste sull’ambiente, società, costume di una Roma poco conosciuta.

Contatti
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Tutte le immagini: © All rights reserved Graziano Panfili

© Graziano Panfili