di Teresa Lanna.

“Manovale della Pittura, che lavora nel Campo dell’Immaginario”. Così si definisce l’artista campano Ugo Antonio Levita. Nato ad Acerra, in provincia di Napoli, nel 1958, Levita frequenta gli studi artistici prima a Napoli, poi a Firenze. Si interessa fin da subito all’arte fantastica e alla figurazione, cui si avvicina dopo essere rimasto affascinato dalle opere e dai testi surrealisti.
Negli anni ottanta, a Napoli, in una situazione dominata dalle tendenze, con altri giovani come Dante Manchisi, Giuliano Lo Priore, Franco Matano, Peppe Barile e Giorgio Simeoli, dà vita al gruppo Ascendente & Discendente, i cui membri condividono le proprie esperienze per proporre un nuovo tributo al mondo dell’immaginario. In seguito, elabora una sua poetica che spazia in modo trasversale ed autonomo all’interno delle culture e del tempo, acquisendo la consapevolezza del dinamismo e della complessità storica.


Verso la fine degli anni novanta, viene presentato al critico mantovano Renzo Margonari, studioso delle tematiche legate alla ricerca surrealista e docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Verona, il quale sarà curatore della sua prima mostra personale nel 1998, all’interno del Castello di Acerra.
In seguito a questo evento, il critico e giornalista d’arte del quotidiano La Repubblica, Vitaliano Corbi, lo inserisce nel suo volume: Quale avanguardia? L’arte a Napoli nella seconda metà del Novecento.
Attualmente Levita collabora con Libellule LTD; con Magic Realism, che ha sede ad Hong Kong, San Francisco e Parigi e che include artisti mondiali di ispirazione surrealista; con il Centre for Art of International Imaginary Realism, in Danimarca. L’artista campano, inoltre, è stato inserito da Alfried Kostrewa, critico d’arte di Hannover, in Germania, nell’Euro-Bilder-Projekt, come rappresentante dell’Italia tra i paesi che hanno aderito alla moneta unica. In seguito, sarà scelto per la realizzazione di un’opera che rappresenti l’unione dei suddetti paesi.
In Umbria partecipa, invitato dal critico d’arte perugino Antonio Carlo Ponti, all’edizione conclusiva di Terra di Maestri, il processo di storicizzazione dell’arte umbra del novecento; successivamente, Levita prenderà parte a diversi festival ed eventi espositivi, sia in Italia che all’estero. Dopo il 2000, si trasferisce in Umbria in una ex casa colonica nei dintorni di Todi, a Canonica, dove ha realizzato il suo studio e uno spazio espositivo permanente. Ondaperpetua è il progetto che identifica la sua poetica e che lo rappresenta culturalmente.

L’intervista
[Teresa Lanna]: Lei si definisce “Manovale della Pittura, che lavora nel Campo dell’Immaginario”. Si è sempre sentito tale oppure è il “ritratto” in cui si rispecchia meglio in questo momento?
[Ugo Levita]: Sì, amo ancora definirmi in tale modo. Umilmente, come un discreto operaio dell’anima; questo affinché l’arte sia libera dagli inutili protagonismi della moda del momento.
La sua opera è stata, sin da subito, influenzata, in particolare, dall’arte fantastica e surrealista. Se dovesse citare un paio di artisti che, soprattutto all’inizio del suo percorso, sono stati dei punti di riferimento per lei imprescindibili, quali nomi – e lavori ad essi associati – le verrebbero in mente?
Senz’altro il Giorgio De Chirico degli anni dieci, quello metafisico per intenderci; inoltre, i surrealisti militanti come René Magritte, Max Ernst, Salvador Dalì… La lista potrebbe essere lunghissima, se consideriamo gli artisti visionari di tutte le epoche; da un Bosch, nel cinquecento; fino all’ottocento, secolo di pittori straordinari, i Preraffaelliti; lo stesso Klimt. Ma, nella mia formazione adolescenziale, figura soprattutto un nome: Michelangelo Merisi da Caravaggio, e, di conseguenza, tutta la pittura napoletana del seicento.


Le sue opere sono intrise di napoletanità, in un omaggio dolce-amaro alla città partenopea, ai suoi simboli, personaggi celebri, problematiche e contraddizioni. Opere come Cosa sono le nuvole, l’Unicorno di Pulcinella, Mare Nostrum o Sancta Monnezza, sono solo alcuni tra decine di esempi. Se dovesse comporre un ritratto di Partenope oggi, come lo concepirebbe e quali elementi non potrebbero mancare?
Sono nato ad Acerra, in provincia, ma ho sempre vissuto a stretto contatto con la città. Ho trascorso parte della mia giovinezza a Napoli, un luogo che da sempre fonda il suo fascino arcaico sul contrasto del doppio; una città a ‘controscambio’, dove il suo ‘positivo’ è visto in ‘negativo’, e viceversa, come le coppie bianco/nero, paradiso/inferno, demoni/santi, maschile/femminile, pieno/vuoto, acqua/fuoco, cielo/terra, lazzari e baroni. Una città ‘di sopra’ e una città ‘sotterranea’. Sotto di essa giace un cuore di drago, una città bagnata dal mare che galleggia sul fuoco dei suoi vulcani. Oggi l’ispirazione più profonda viene dalle polarità in scontro e tensione; un processo immaginifico che vuol restare sincero, trasparente, generoso. Questi sono gli elementi che non possono mancare.


Tra i ritratti che arricchiscono la sua carriera, vi sono anche quelli delle sue figlie, Artemisia e Cecilia Alma. Quali emozioni si provano nel dipingere componenti di famiglia e come hanno reagito, loro, nel ‘vedersi’, successivamente, all’interno dei suoi ritratti?
Sentono, in qualche modo, l’esclusiva di essere partecipi del mondo creativo del papà; già sentono di essere collezioniste di questo lavoro che appartiene loro. Avevo precedentemente iniziato con la loro madre, Maria Tea Varo, perché trovavo e trovo iconograficamente naturale e spontaneo, essendo un pittore che adopera la figura per raccontare delle storie, servirmi della loro presenza in qualità di modelle e attrici dei miei lavori. D’altronde, i miei quadri sono palcoscenici teatrali, sui quali mi accingo ad essere il direttore che da dietro le quinte predispone la regia dello spettacolo; quindi, non solo ritratti. E poi, loro tre, nella vita ‘reale’ hanno molta familiarità con passerelle, palcoscenici e set cinematografici. Comunque, posso dire che loro, insieme a mia madre, sono state e sono i miei critici più ‘severi’ e ‘spietati’, e le ringrazio per questo.
La mostra Intermundia (2024, n.d.r.), ha rappresentato, per lei, un ritorno alle origini, all’interno della Chiesa di Santa Maria di Portosalvo, che ospita opere di artisti come Battistello Caracciolo, Dionisio Lazzari, Antonio de Bellis e Ippolito Borghese. Come è nata la scelta di tale luogo e quale è stato il criterio che ha guidato la selezione delle opere da esporre per l’occasione?
Sono ritornato a Napoli, con una mostra personale, dopo più di un ventennio dalla mia ultima esposizione, curata dal critico e storico dell’arte Vitaliano Corbi, giornalista per La Repubblica. Nel frattempo, ho esposto in varie località d’Italia e d’Europa, in location sempre di un certo fascino ed importanza storica, confrontandomi con la meraviglia dei siti. E, a proposito di meraviglie, la mia pittura è entrata all’interno della bellissima chiesa di Santa Maria di Portosalvo, a Napoli, in un deferente accostamento alle opere dei maestri napoletani del seicento, come Battistello Caracciolo, Antonio De Bellis, e altri. Questo è stato possibile grazie alla prodigalità di giovani ed associazioni promotrici della cultura artistica cittadina.

Torniamo alle origini; in particolare, alla sua prima mostra personale nel 1998, all’interno del Castello di Acerra, sua città natale. Ci vuole descrivere le sensazioni che ha provato in tale occasione, e l’impatto che hanno avuto le sue opere sul pubblico?
In qualche modo, ho avuto l’impressione di svolgere da sempre un’attività creativa, ma ancora non avvertivo la sensazione del sopportare il peso mediatico di una manifestazione individuale. Infatti, nell’occasione che lei cita, avevo già compiuto quarant’anni; molto in controtendenza con chi, svegliandosi una mattina, si scopre ‘artista’ e il giorno dopo espone. E il pubblico, questo, lo avevo capito; infatti, all’inaugurazione erano presenti più di trecento persone che faticavano ad osservare con tranquillità le opere esposte.

Nel corso degli anni, le sue creazioni hanno avuto numerosissimi riconoscimenti, sia nazionali che internazionali; basta leggere la sua biografia per prendere atto di quante istituzioni e nomi celebri del settore hanno costellato il suo percorso. Vorrei che fosse lei, però, a menzionarne qualcuna/o e a citare qualche episodio in cui le è giunto un elogio, premio, o complimento, che lo hanno reso particolarmente fiero del suo lavoro.
Per non fare torto a nessuno, vorrei evitare di citare eventi o persone che hanno creduto nella mia poetica, nel mio linguaggio, che posso affermare essere libero dai condizionamenti di certe gallerie, fiere, o da certe tendenze modaiole. Ma, se proprio devo ammetterlo, posso dire che, esporre più di una volta al Grand Palais di Parigi, e sapere, in una di queste volte, che, contemporaneamente, al Petit Palais era in corso una retrospettiva su Vincenzo Gemito, mi ha procurato un certo effetto.


Infine; nelle sue opere ricorre spesso il colore azzurro. C’è un significato che sottende a tale scelta e, se no, quale colore sceglierebbe come emblema del suo iter artistico?
Il blu come colore è molto suggestivo ed evocativo di una certa introspezione meditativa. Amo anche il rosso, ma in definitiva amo tutti i colori a prescindere dalla loro percezione visiva e dalla loro influenza sul nostro animo. I colori sono la rappresentazione estetica dei nostri ‘moti dell’anima’, come amava dire Leonardo da Vinci nel suo Trattato della pittura.
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