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La pittura come forma di preghiera laica: intervista a Marco Bettio

di Mariateresa Zagone.

La pittura come forma di preghiera laica: intervista a Marco Bettio

La pittura di Marco Bettio è una forma di esercizio morale, come per Rembrandt o per Chardin, è una pittura profondamente concentrata sul proprio linguaggio, che si risolve in sé stessa senza retorica e nella quale ogni parola risulta di troppo. Esclusa dalla soglia del suono, la pittura è condannata al silenzio quanto più si coinvolge nella sua stessa materia e quanto più risulta avvinghiata al suo proprio linguaggio, alla sua grammatica, tanto più diventa “luogo” intimo e sognato, fatto di oggetti silenti e di presenze eloquenti che continuano a dare voce al fare. Per Bettio dipingere è esperienza autentica, ricerca di senso ma anche ritualità gestuale, racconto individuale e indagine sul mondo; le sue opere sono degli still life, nature immobili più che morte, in cui la rappresentazione si espande intorno a se stessa annullando quasi l’aria, il moto, la vita che la circonda, anzi, assorbendola in essa. Sono composizioni mute che parlano dell’artista: montagne, pasticcini, animali diventano così attori su un palcoscenico, oggetti di meditazione.

Il perché, dopo un po’, si comincia a comprenderlo: sta nel rigore, matematico come una sonata di Bach, e nella perfezione compositiva. Si può provare, per un gioco della mente, a immaginare una sua opera privata di un solo elemento, di un solo colore, ed ecco che l’intero quadro svanisce. Gli oggetti ci crollano addosso. I colori non si rispondono più e il quadro da silente diventa muto. Fortuna che riaprendo gli occhi la magia torna intatta: tutto è ancora al suo posto nell’armonia sacra di una pittura perfetta.

In un tempo in cui tutti siamo seguiti, controllati, schedati, guardati da un grande occhio mediatico, in cui seguiamo, guardiamo, controlliamo, schediamo, giudichiamo con un like risulta quantomeno strano se non impossibile che Marco lasci traccia di se con le sole opere. Sono opere da ascoltare queste piccole e grandi “preghiere”, per udirne il silenzio, sono opere da gustare in una sinestesia che inebria i sensi tutti fino a confonderli in un godimento profondissimo ed estatico. L’abbandono estatico a queste opere ricorda le forme sensualmente meditative della pittura o della scultura barocche, dalle quali manca solo e volutamente il moto. “…lo vide, lo conobbe e restò senza fiato e moto…” scriveva Tasso, e così si rimane davanti a questo esercizio di mente, di cuore, di mano che nella metafora dell’asino o del pasticcino trova la propria chiave di lettura concentrando la poetica su due fuochi: la mimesis e il dialogo fra gli esseri viventi tutti, gli oggetti tutti, come compartecipi paritetici della dimensione intima della vita.

Marco Bettio – Wedding day – Il dono della sposa-, cm 94×160, olio su mistolino, 2023 photo Stefano Venturini

L’intervista

[Mariateresa Zagone]; Chi è Marco Bettio?

Marco Bettio

[Marco Bettio]: Io. Credo di essere io. Anche se capita spesso di immaginare tutta la mia vita come il sogno di un me stesso in coma, steso in una camera d’ospedale, con flebo e suoni delle macchine che mi tengono “in vita”. Mica si può mai dire.

Quando è nata la tua passione per la pittura e quando hai capito che sarebbe stata la tua professione?

Come per tanti, non solo legati alle arti, tutto è nato nella prima infanzia. Mio padre quando ero molto piccolo aveva l’hobby della pittura e lì nasce una sorta di imprinting relativo a odori, oggetti, strumenti, tutti in stretta relazione con la pittura. Il disegno, in particolar modo, è stato presente come un amico immaginario per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un buen retiro la cui importanza cresce in maniera direttamente proporzionale alle difficoltà del vivere. La pittura, poi, ri-nasce e cresce con l’arrivo al liceo artistico e l’incontro con un professore di scultura, un pittore il cui studio è stato a lungo una seconda casa e il primo luogo di formazione. Da lì all’Accademia il passo è stato quasi automatico (la famiglia di mio padre è legata all’architettura e ingegneria, quindi sarebbe stato naturale il mio ingresso come architetto nello studio creato da mio nonno). L’idea di “professione” non ha mai fatto parte di me e tantomeno del mio rapporto con la pittura. Quella si è palesata quando sostanzialmente era ciò che facevo già da molto tempo. Credo che la mia generazione sia stata l’ultima ad aver faticato a considerare la pittura, l’arte visiva in toto, qualcosa da professionalizzare attraverso luoghi di lavoro, fiscalità, ecc., ci siamo trovati dentro quasi nostro malgrado. Non credo ci sia stato un momento, una mostra o una vendita, che mi abbiano illuminato a tal proposito.

È vero che il primo atto di un’opera è sempre autobiografico?

Francamente fatico molto a pensare che l’uomo, in un ambito non prettamente scientifico, possa avere la capacità di scostarsi dal sé, dalla propria coscienza e di conseguenza dalla memoria che ne rappresenta al contempo paesaggio e soggetto, per produrre un pensiero o un manufatto. Anche laddove ci si riferisca a una mitobiografia, come nel caso del lavoro della mia compagna, Sarah Ledda, questa non può non fare i conti con la propria biografia. Tutto è autobiografico, così come tutto quanto dipinto è in sostanza un autoritratto.

Anche la tua compagna, Sarah Ledda, è pittrice. Le coppie di artisti mi hanno sempre affascinata e fatto sorgere interrogativi. Come vivi e vivete l’interrelazione, la vicinanza affettiva, c’è un rischio di contaminazione?

Sarah Ledda è una pittrice straordinaria ed è pure una straordinaria artista. Lo dico tranquillamente perché si tratta di un giudizio nato molto prima di conoscerla personalmente. Questo ha solo aumentato la mia stima. Per quanto riguarda la contaminazione, penso che la cosa ne sia in qualche modo una panacea. Probabilmente c’entra anche la nostra età e il rapporto con la propria poetica. La mia paura rispetto alla contaminazione è solo riferita a quella che non vedi, non riconosci. In questo caso, ed è parte del mio lavoro, il mio tentativo è quello di cercare di rallentare, isolare, per cercare di mantenere la concentrazione nel frastuono anche visivo che ci circonda. Con Sarah, da sempre, c’è un confronto-scambio continuo che parte dal pensiero o l’emozione e arriva alla qualità di una setola o di un pigmento. Ognuno dei due sa perfettamente chi è e cosa fa. Sempre.

Marco Bettio – Ierofania sul Bianco, cm 48×76, olio su lino, 2020 photo Stefano Venturini

Qual è il tuo rapporto con la Storia dell’Arte? Quali artisti o correnti sono stati imprescindibili per l’elaborazione del tuo linguaggio?

Difficile rispondere a questa domanda. Fino ai trentacinque anni non ho fatto quasi altro che studiare le opere, le immagini di opere, le vite, le riflessioni del e sull’artista. E’ difficile per me capire dove finisce Bacon e inizia Carver o come la poesia di Bukowski condizioni il culo di Velazquez (l’unico dipinto da lui) o i suoi meravigliosamente empatici deficienti di corte. Questo ha infinitamente a che fare anche col mio lavoro, col mio linguaggio. Certo, sicuramente Gerhard Richter ha influito e credo sia evidente, ma tanto quanto Carl Andre, o il primo Damien Hirst. Spesso poi critici e artisti si sono fusi in me, come nel caso di Bacon e Sylvester. Per quanto riguarda il mio linguaggio poi molto ha a che fare anche col suono, la musica e il jazz in particolare, dove, quando una voce racconta, le altre lo sostengono nel racconto. Quasi sempre una voce alla volta.

Secondo te qual è la funzione dell’arte oggi?

Non lo so proprio. Direi nessuna, di per sé. Un po’ come dire gente o persone. L’arte non esiste, dal punto di vista di una ipotetica funzione. Ritengo invece che l’opera, quando incrocia lo sguardo giusto, può tutto. E’ in questa relazione a due che prende vita l’epifania, l’apotropaico, il sacro, la ierofania, l’opera può salvare il mondo, così come avvicinarlo di un giro al baratro.

Hai scelto la figurazione, e nella figurazione l’animale ha un ruolo centrale, cosa rappresentano per te?

Non so quale sia il motivo, ma non penso si possa parlare di una scelta vera e propria. Da ragazzo ho studiato come molti il colore così come la spazialità o tridimensionalità della pittura realizzando cose che potrebbero considerarsi astratte o tridimensionali. Un atteggiamento che si è spostato quasi subito nel desiderio di riempire di colore (smalto) ogni cosa mi capitasse a tiro e, una volta entrato in accademia, il mio primo progetto è stato quello di colare uno smalto blu oltremare (un IKB sintetico e lucido) su tutta la Calabria degli edifici iniziati e lasciati come scheletri nel paesaggio. Quel primo approccio al medium, mi sono reso conto in seguito, già conteneva in potenza inespressa il mio bisogno di reale, di paesaggio e soprattutto di raccontare l’uomo attraverso le sue tracce, le sue azioni. Nulla di astratto. Non voglio dire di vedere un dipinto astratto, come scrive di ritenere Bacon, qualcosa di simile a un fazzoletto da naso sporco, ma per me l’astrazione non ha significati al di là dell’aspetto decorativo o compositivo. Anche dove portatore di nuove istanze (penso a Kandinskij o Klee, a Franz Kline o Pollock) o di relazioni nuove con lo spazio e la percezione (da Malevič a Milhazes o da Manzoni, o Burri, al nero di Kapoor) non riesco a trovare altro che non sia intrinsecamente legato al linguaggio, in sostanza un’azione autoreferenziale. Non è stata una scelta quindi, ma una naturale necessità. L’animale, come d’altra parte il paesaggio o “il pasticcino”, nasce con l’intento di dipingere qualche cosa che ci riguarda. Nel caso dell’animale, senza voler scomodare Hillman o Coccia, o Caffo, ciò che inizialmente mi ha attratto è stato l’elemento archetipico che lo caratterizza. Asini, macachi, scimpanzé, elefanti o topolini incarnano, ognuno a suo modo, una figura archetipica strettamente legata all’uomo. Questo porta anche alla questione dell’antropocene, dello sguardo antropocentrico dell’uomo e di quel delirio di onnipotenza così strettamente legato alla cultura giudaico-cristiana, ma porterebbe lontano. Per me, me ne sono reso conto qualche anno fa, continuare a realizzare questi ritratti diventa qualcosa di vicino alla meditazione, un esercizio dal quale sono uscito profondamente cambiato nel mio sguardo sul Creato e soprattutto sui viventi. I quadri ci guardano e, quando sono realmente delle urgenze, sussurrano e talvolta sussurrano qualcosa che puoi solo intuire ma che resta preclusa al pensiero razionale. Altra sbandata che porta lontano…Dipingere il ritratto di un animale per me significa, dal punto di vista pittorico, avere tutto ciò che amo dipingere a disposizione. Tutto ciò che rende così seducente per me la pelle pittorica: superfici scabre, altre vaporose, altre ancora liquide, “sberluccicanti”. Una sorta di micro-mondo che nel mio caso ritrovo, arricchito di tinte e pigmenti, nel ciclo Desiderio, nelle glasse, creme ecc.

La narrazione del tuo universo è quella di una profonda interrelazione fra tutte le cose. Una ricerca artistica che appare come una forma di meditazione, di preghiera laica. A ispirarti, influenzarti, illuminarti ci sono letture particolari? Ce ne parli?

Credo che un aspetto che caratterizza da sempre il mio lavoro sia il rapporto quasi paritetico tra immagine e pratica pittorica. Non sono mai stato un pittore capace di trovare senso e urgenze all’interno della tela, il dipingere per vedere la pittura farsi immagine e trovare in questo quanto basta. Ho sempre guardato con curiosità i vari Guttuso disporre quattro peperoni su di una vecchia sedia e farne un quadro, talvolta molto bello. Per me la pittura è sempre stata una necessità direi primaria, tanto quanto il mangiare o l’appartenere, per non fare deragliare senso ed equilibrio. Ciò nonostante, non riesco a dipingere così, sull’onda di un’improvvisazione. Ho bisogno di senso, di inserire la pratica pittorica, che di per sé ne è quasi l’opposto, un “vuoto” che va riempiendosi e impreziosendosi di suggestioni, di intuizioni più simili al sogno che alla riflessione. Mi metto al lavoro quando il senso del progetto (che è sempre una delle quasi infinite sinapsi della stessa poetica) è compiuto. La pittura per me è qualcosa di importante, di serio, quanto di più distante dal masturbare lo sguardo accordandolo a mode o divani. La lettura ha sempre avuto grande importanza, in modo diverso a seconda dei periodi, delle condizioni e pure dei luoghi. In questi anni gli autori più importanti sono stati senz’altro Cacciari e Galimberti, come Thoreau, Bernhard, che hanno portato in anni più recenti a ritrovare molte delle mie intuizioni e conseguenti riflessioni in termini di diritti, di vita e della sua complessità, di ospitalità e coesistenza nel pensiero e nelle pubblicazioni di Emanuele Coccia e Leonardo Caffo da un punto di vista più umanistico, filosofia allargata e interconnessa, così come nel pensiero di Stefano Mancuso relativo alle capacita cognitive dei vegetali. Tutto questo naturalmente influenza molto il mio atteggiamento rispetto al mio dipingere e, per quanto alla fine si tratti sempre di poesia e non di saggistica, vorrei che nel mio dipinto si sentisse un’ aura, l’eco di queste riflessioni così fondamentali, oggi particolarmente.

La tua pittura, l’isolamento dei soggetti, siano montagne, animali o i deliziosi pasticcini, danno l’impressione di tradurre perfettamente i colori del silenzio, è così?

Direi di sì, anche se solo parzialmente. Indubbiamente l’isolamento del soggetto implica nella fruizione un accostamento al silenzio, sono indiscutibilmente immagini che rifuggono la chiassosità. Non contemplano la chiassosità della moda cercando una identificazione con lo stile, qualcosa che ha a che fare più con la classicità. Dicevo di concordare “parzialmente” per il fatto che questi dipinti, quantomeno nelle mie intenzioni, vorrebbero alterare nel fruitore la percezione tempo. Siamo talmente rintronati dalla quantità di immagini (lo stesso vale per il rapporto suono-musica) che ci circondano e investono in continuazione, digitali o stampate, fisse o in movimento che siano, da essere diventate un qualche cosa da cui proteggerci. Come per molti aspetti che riguardano questa evoluzione del vivere che impedisce ai tempi dell’evoluzione di specie di renderci adatti al nostro vivere (si pensi al concetto di plants Brightness) ritengo che anche le immagini, dalla semiotica del cartello alle finalità moraleggianti dell’arte sacra, siano diventate oggi un problema che riguarda la concentrazione, o la nostra stessa capacità di vedere. Mi piacerebbe che guardare un mio dipinto, o una mia mostra, portasse con sé il rallentamento del passo, del battito cardiaco. Vorrei in sostanza che quella concezione di vita così necessariamente rapidissima, mordi&fuggi (o figa&fatturato che sia), stessero fuori dalla galleria o museo o parete, proprio come tento di lasciarle fuori dalla tela, dando vita a quello che in un deserto è rappresentato dall’oasi.

Cosa pensi, in generale, del “sistema dell’arte” in Italia?

In realtà non credo di averne un giudizio particolare o esclusivo. Credo che ciò che ne rappresenti la maggiore “colpa”, quantomeno per quanto riguarda il vertice, sia politico che finanziario della piramide, sia il non voler (o non sapere) capirne la profonda ripercussione su tutto. Il non attribuire nella contemporaneità il valore che diamo alle arti storiche o comunque storicizzate nel giudicare un tempo o un luogo. Detto questo ritengo che il cosiddetto sistema dell’arte non sia altro che uno dei tanti consessi nei quali una leadership molto ridotta cerca di mantenere uno status quo sulle spalle di tanti. Tantissimi. La cosa davvero importante, e qui vengo anche alla domanda successiva, per me è come, anche in questo “sistema”, esistano enormi e meravigliose “sacche di resistenza”, anche se spesso inutili, quando il fine è solo quello finanziario. Credo poco nelle astrazioni e non ho idea di cosa rappresenti realmente Il sistema dell’arte. Ho invece una relazione forte con il Mio sistema dell’arte, ed è una relazione emotiva, affettiva, economica, di comunità, di famiglia. Gli artisti coi quali sono cresciuto o vivo oggi sono la base più importante (anche l’artista, come l’essere umano si crea una identità sulla base del riconoscimento da parte degli altri), così come i galleristi coi quali mantengo relazioni costruttive. Poi senz’altro ci sono i critici, quelli che mi aiutano a spostare l’asticella un po’ più in là, ancora e ancora. I giornalisti o editori, così come il laboratorio che realizza proprio quel telaio o quel supporto. Insomma ritengo che di sistema dell’arte ve ne sia uno super cool, fatto degli stessi personaggi che l’altro giorno erano alla serata degli Oscar e alle feste che ne sono seguite, e con il quale non ho alcuna relazione, tanto meno un giudizio. E’ qualcosa che non esiste davvero, somiglia al Beautiful degli anni novanta dove il mondo si riduce a cinquanta persone e non mi appartiene proprio. Il mio invece è quello che mi permette, tra mille difficoltà, di vivere facendo quello che faccio nonostante carattere, necessità e idiosincrasie mi rendano poco adatto a questo tipo di sistema di relazioni, spesso più interessato al contatto che all’opera.

Cosa ti senti di consigliare ad un giovane studente dell’Accademia che volesse intraprendere la professione del pittore?

Per quanto riguarda il giovane studente, quello che mi sento di scrivere è lo stesso di quanto mi capita di dire quando ci si incontra, ovvero cercare di lavorare in modo folle e ossessivo per capire se “ci si sta dentro”: occorre una vita per diventare bravi in qualcosa (enorme la differenza tra l’esserci portato e il diventare bravo) ed è quindi vitale capire se quella è per noi la nostra strada. Il secondo punto riguarda crescita e appartenenza, e quindi il gruppo dei pari e un docente, critico o artista che sia. Ritengo sia in assoluto l’aspetto più importante dai venti ai trenta. Poi c’è la faccenda del soggetto (o della poetica) e lì vive il nostro essere o meno degli artisti.

Una domanda di rito per concludere. Quali sono i tuoi progetti futuri?

Da qui a maggio sarò preso con il finissage delle due mostre ancora in corso: una personale pubblica ad Aosta, Amniotica, curata da Gianluca Marziani e Daria Jorioz, e Animali Fantastici a Bologna, una produzione Arthemisia a cura di Antonelli-Marziani. A settembre-ottobre sarò a Palermo per una residenza e personale e, nello stesso periodo parteciperò a un progetto del Forte di Bard.
Ci sono in ballo due mostre a Roma e a Firenze ancora da definire e una in Veneto che probabilmente prenderà forma nel ‘25.
Questo per quanto riguarda le mostre, mentre per quanto riguarda la mia vita e il mio lavoro da tempo rifletto sul fatto che a luglio gli anni vissuti saranno 50 e quindi si impongono cambiamenti che segnino i primi e i secondi cinquanta. Vedremo…

Contatti e riferimenti
Studio Marco Bettio: via Monsignor de Sales 27,11100 Aosta; 348 8854625; marcobettio@legalmail.it
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Immagine in evidenza
Marco Bettio – Amniotica #2, cm 50×50, olio su juta, 2022, foto di Stefano Venturini
Copyright
Tutte le immagini © Marco Bettio e rispettivi crediti fotografici

Marco Bettio – The River, cm 100×150, olio su tela, 2006-2016 photo Stefano Venturini

Marco Bettio è nato a Padova nel 1974. Dopo il liceo artistico frequenta la sezione di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, senza giungere al diploma. Durante gli anni di accademia partecipa e organizza le prime esposizioni in spazi pubblici e privati. Nel 1996 si trasferisce a Pistoia dove espone ed inizia a collaborare con studi di architettura e interior design. Dal 2002 al 2014 vive e lavora a Milano, collaborando con diverse gallerie e spazi indipendenti fra i quali Open Art Gallery e Galleria Antonio Battaglia. Dal 2014 vive tra Torino ed Aosta dove, nel 2015, ha esposto nelle sale del museo archeologico regionale. Tra i luoghi istituzionali più significativi nei quali ha esposto ricordiamo la Fonderia delle Arti di Roma (2013) e Palazzo Zenobio a Venezia (2012).