di Paola Milicia.
Nuovo appuntamento con l’arte contemporanea, a Roma. Palazzo Cipolla apre i battenti a “London Calling: British contemporary art now. From David Hockney to Idris Khan”, collettiva di brit-art voluta dai curatori Maya Binkin e Javier Molins in collaborazione con alcuni artisti esposti, e con l’ausilio di collezionisti privati e gallerie (Goodman Gallery, Gagosian Gallery, Lisson Gallery…), per riassumere cinquanta anni di modernità irriverente e sovversiva, in oltre 30 opere e 13 artisti, nati tra il 1937 e il 1978, la cui carriera è stata plasmata dalla capitale britannica. Prima volta in Italia, London Calling è un compendio efficace (forse, non esaustivo) di sguardi sull’arte londinese: una geografia vissuta quale trama di incontri-scontri, assimilazione-contestazione, ispirazione ed emancipazione, e quale cristallizzazione di un ininterrotto diluvio storico.
Se per alcuni London Calling è associabile al ritornello di un successo recitato a squarciagola da intere generazioni in jeans strappati e giubbotti di pelle – ragione comunque sufficiente e simbolicamente azzeccata perché lo si è scelto a titolo di un percorso artistico che parla di Londra e dei suoi artisti più ispirati -, è altresì interessante notare il mercato di significati sottintesi a cui l’esposizione lega implicitamente la sua scelta e la sua sostanza. Intanto, quello storico che ci riporta alla Seconda Guerra Mondiale, quando la BBC standardizza l’apertura delle trasmissioni radiofoniche in onda con l’espressione “This is London calling”. Pilastro dell’establishment, le comunicazioni hanno giocato un ruolo da sempre affiliato al potere politico, e quanto ripreso dalla band, per niente romantico e innocente, covava il germe di una generale dissidenza e rivoluzione contro il sistema politico conservatore. Tuttavia, London Calling fa pensare alla generazione dei così detti “Tatcher’s children” che puntò a mettere in atto una studiata strategia mediatica fondata sulla pianificazione della figura d’artista e della propria produzione. Damien Hirst e i fratelli Dinos e Jake Chapman (in mostra), Tracy Emin e Sarah Lucas, Steve McQueen e Douglas Gordon, autori oggi acclamati in tutto il mondo, emersero grazie a un uso escogitato dei medesimi mezzi di comunicazione responsabili della pubblicità elettorale del partito conservatore.
Tra contraddizioni e radicalismo – che pure andrebbero colte per godersi la visita – è il caso di dire che Londra, da sempre, gode di un sistema di imprenditorialità culturale capace di scovare talenti, lanciare tendenze, esportare avanguardie come prodotti industriali e di serie, senza il quale, non ci sarebbe quel brit system che ha colonizzato l’industria della musica, la letteratura, l’arte, e il design, a partire dagli anni Sessanta ad oggi, e che continua a essere il combustibile di una città in costante fermento.
“Per trovare una città con una tale concentrazione di talenti artistici bisogna risalire indietro nel tempo fino alla Firenze del Rinascimento. L’arte di quel periodo dovette la sua nascita a una serie di fattori, tra cui il progresso scientifico, economico e politico che portò le città a competere tra loro per attrarre i migliori artisti. Allo stesso modo, la rivoluzione dei costumi e il grande sviluppo economico che investirono Londra negli anni Sessanta hanno dato vita a un vivace ambiente artistico nel quale scuole d’arte e gallerie si contendevano i migliori studenti e gli artisti di spicco mentre i musei si sfidavano a colpi di mostre sensazionali. Non solo, le stesse istituzioni facevano a gara per premiare gli artisti più meritevoli e i collezionisti per acquista-re le opere migliori. Lo scopo di questa mostra è di presentare il lavoro degli artisti di quel periodo, cercando di spiegare le ragioni che hanno decretato il primato di Londra sulla scena dell’arte contemporanea globale”, spiega Javier Molins.
London Calling è soprattutto un’audizione, una chiamata alle arti, la voglia di essere presenti e manifestare liberamente la propria genialità creativa.
Il percorso espositivo si snoda lungo un ideale tracciamento concettuale e stilistico in cui la parola d’ordine è sperimentazione di materiali e di tecniche che ogni artista sviluppa con elementi di assoluta originalità: sculture, installazioni luminose, pitture, ceramica, fotografia, video, si susseguono in un parterre eterogeneo di voci e attitudini. La varietà degli artisti presenti consente di contemplare scelte compositive assai diverse con cui narrare una molteplicità di temi quali la vita quotidiana, la pandemia, l’esplorazione dell’essere umano, il rapporto tra vita e morte, il genere, la violenza, la banalizzazione, lo sfruttamento commerciale del dolore.
Ritroviamo Damien Hirst, genio mediatico indiscusso, deliberatamente provocatorio, capofila del gruppo dei YBAs, che lega la sua produzione a tattiche shock e a contenuti di morte, di disagio e fragilità psicofisica. In mostra con opere più rappresentative, come Glen Matlock (1996-97): si tratta di un armadio ricolmo di medicinali e farmaci a cui è stato dato il nome del bassista dei Sex Pistols; e con Beautiful totally out of this world painting (2005) uno spin painting, nato come un esercizio senza approdo, un mantra cromatico senza fine. Presente anche come collezionista, Mat Collishaw è forse l’artista più singolare e curioso: tra ambiguità e verità visiva, Seria Ludo (2014) è una scultura animata con la proto-tecnica dello zootropio, un enorme lampadario sospeso nel buio della sala ricorda tanto un girone dantesco animato di personaggi fantasmici, tanto una giostra vittoriana o un inquietante carillon d’epoca.
Umorismo nero e denuncia dell’ipocrisia collettiva per il duo Chapman con la scultura-shock modellata in bronzo su un giubbotto esplosivo (Life and Death Vest, 2017); sempre loro la serie in cui il duo rilegge le incisioni di Goya dei Disastri della guerra (The Disasters of Everyday life, 2017). Eleganza e leggerezza si fondono nell’opera di Anish Kapoor, Magenta Apple mix 2 (2018), dittico in acciaio inossidabile, che si impone sull’osservazione per il contrasto cromatico in un ambiente total white, per le dimensioni e per quella ambiguità catarifrangente che gioca con la superficie a specchio in cui i movimenti vengono catturati, respinti, e capovolti, in bilico tra attrattività e riluttanza, realtà e ribaltamento.
Classe 1937, David Hockney è presente con opere realizzate su smartphone poi stampate in maxi-dimensioni, in cui i soggetti sono psicologicamente evidenziati da colori accessi e brillanti.
E ancora: Michael Craig-Martin, Sean Scully, Julian Opie, Idris Khan, Grayson Perry, Annie Morris.
Ma su tutti, Londra, capitale iconica e nevralgica che continua a essere il canto delle sirene per le giovani generazioni di artisti. Che sia il caso di dire “God save the Queen“?
Paola Milicia
“Ho ascoltato per la prima volta London Calling dei The Clash quando avevo 14 anni. È stato come il canto della Sirena che mi ha tirato nella capitale.”
Matt Colishaw
“Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita.”
Samuel Johnson
“London calling: British contemporary art now. From David Hockney to Idris Khan”
fino a domenica 17 Luglio 2022
PALAZZO CIPOLLA – FONDAZIONE TERZO PILASTRO INTERNAZIONALE
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