
Tra la Sicilia e Pantelleria uno strano e inaspettato fenomeno si verificava nella prima quindicina di luglio del 1831.
Un’alta colonna d’acqua e di vapore fermava l’attenzione dei marinai.
Quindi, dalla superficie delle onde, si levava un’isola eruttante dal piccolo cratere.
Era un’angusta isola vulcanica.
Le fu imposto il nome del giovine Re da poco salito al trono; si chiamò Ferdinandea.
Talvolta avevo pensato a quest’apparizione cui si era dato un nome regale, e l’avevo accostata ai successi di alcuni artisti: successi improvvisi, movimentati, coronati dal consenso della critica e dal favore del pubblico.
Ma l’eruzione dell’isola Ferdinandea cessava presto.
E la sua mole, inerte, non rinsaldata, non adeguata al cozzo dell’onda, si sfaldava, s’abbassava, scompariva sommersa e sommersa giaceva – con una momentanea ed effimera apparizione – sino ad oggi.
Vi è uno scultore nostro che al pari dell’isola Ferdinandea rimase sommerso, essendosi abbandonato inerte al cozzo dei marosi, dopo la sua prima, celere ora di fama.
Da sedici anni ormai, là dove aveva brillato il suo nome, l’onda scivolava via, uguale al restante mare, coprendolo.
Egli rimaneva sepolto durante le alte e le basse maree della vita, durante le calme e gli uragani, quando rutilante era il tramonto e dorata l’aurora, quando urlante era la tempesta e di piombo il cielo.
Silenzio.
Come una barca passa sul luogo dell’isola scomparsa senz’accorgersi della sua sommersa presenza, cosi passavano i navigli dell’arte, nelle mostre, nelle esposizioni, nelle competizioni, ed egli non è era. Avrebbe potuto essere morto.
Parlo di Franco Asco. Che cosa ha fatto, come ha vissuto, per tutti questi sedici anni Franco Asco, senza che alcuno avvertisse la sua mancanza, senza che alcuno avvertisse la sua presenza? Ha vissuto di mestiere.
Uno ha nelle mani, nell’agilità delle dita, nell’intuizione facile e scorrevole dell’occhio sui geroglifici del pentagramma, in una fortunata versatilità espressiva, il dono di dominare la tastiera del pianoforte.
Potrebbe essere artista? Si. Ma può costringersi, o essere costretto, a farsene un mestiere.
Franco Asco vede la vita sotto le specie dell’argilla che si plasma.
Quando guarda una figura, l’immagine gli assume una realtà tridimensionale.
I suoi pollici hanno tratto dalla ventura un’innata capacità sensitiva e dinamica che li fa atti ad accarezzare, a trasmutare, a dominare l’argilla.
Lo si potrebbe dire nato scultore.
Poteva fare l’arte. Per sedici anni ha fatto il mestiere.
Adesso io temo che, avendo svelato ciò, qualcuno possa sentire per lui disistima, tacciarlo di pusillanimità.
Intendo qualcuno di quelli che sanno come l’arte sia, sempre, anche lotta.
Ma lo scultore che mi legge nel viso quest’apprensione per lui, s’affretta a scusarsi.
Mi guarda con affetto e benignità.
Sull’alta statura vedo la testa piegarsi da un lato, mentre mi parla, come per cattivarsi un po’ di comprensione.
E la voce è calda, mentre mi parla, quantunque sommessa.

“Che volete? Il mio carattere, la mia stessa sensibilità… non sono nato e non ho la stoffa del lottatore, ne saprei fingermi tale.
Si era arrivati a un punto, in cui bisognava buttare un “fallito” su chi ti avesse dato del “riecheggiatore di motivi altrui”; ripagare con uno schiaffo, chi ti avesse maltrattato le creature di creta; gridare contro chi avesse parlato, urlare contro chi avesse gridato, sferrare la pedata a chi avesse voluto spingerti da parte a colpi di gomito.
“Ho abbandonato il campo ai lottatori, il mestiere, che mi avrebbe fatto vivere, con il quale avrei potuto vivere bene, e stava in me di volerlo, mi diventava, in quel momento di troppo giovanile irriflessione, quasi un modo della vendetta.
“Poi, in un’oasi di ripensamento, fermatemi nella convinzione che la fama immediata non mi avesse giovato, fui più che mai deciso a rimanere assente dal terreno che mi aveva accolto con cosi pronto slancio, per umiliarmi.
Avevo bisogno di umiliarmi, di imparare cioè a ripresentarmi umile, quando un giorno vi fossi ritornato.
Avevo bisogno di sperimentare delusioni, disinganni, prevenzioni, sfiducia, al posto di quell’ieri in cui mi si era accarezzato e si era fatto di tutto per darmi la beatitudine”…
Elio Predonzani
tratto dal Catalogo: “Franco Asco”
Testi di Elio Predonzani
Edizioni Smolars, Trieste, 1949