
Già i quadri di Franco Sarnari precedenti a questi ultimi rivelavano una predisposizione a quella che cinque anni fa chiamavo un’astrazione presunta.
Volevo intendere, allora, la volontà dell’artista di dare l’immagine di una figura (di un frammento di essa, ma quanto mai evocatore, addirittura esteso dallo spasimo – nel senso edonistico – alla sublimazione dell’eros) “per quel che essa è in astratto, non per la coincidenza che essa viene ad avere con la realtà umana”.
Era chiaro sin da allora che dipingere, per Sarnari non è tanto determinare un’immagine quanto evaderne l’immanenza.
Era anche un’interpretazione delle cose per simboli: sicché, quando le cose si riferiscono all’inesprimibile bellezza del nudo, il simbolo si caricava (ancor oggi si carica) di tutte le sue attese, di quell’ineffabile presenza che alita intorno a noi e, perché come invisibile, ci lascia nello stato del sogno.
Sarnari, che scrive brani così poetici nella sua corrispondenza agli amici, che serba intatta la fragranza della Sicilia meridionale dove da qualche anno, come Guccione, ha deciso di vivere, in una atmosfera che dalle sue parole suona patriarcale, assolata, ammantata di silenzi che solo il mutar delle stagioni intermezza di battiti d’ali; Sarnari, dicevo, conserva questo immobile silenzio poetico nella sua pittura.
Questa, oggi, si è più rarefatta.
Non più, pare, le curve misteriose di un nudo, non più gli orizzonti ravvicinati e amplissimi entro i quali quel frammento di vita pulsava di sangue e di piacere, ma l’ancor più olimpica rarefazione: la “dilatazione del punto di partenza”, egli l’ha chiamata.

Per mettere un po’ d’ordine in quel che vado scrivendo, vorrei dire che Sarnari continua nella sua congeniale dialettica di porre una qualsiasi presenza d’immagine (l’astanza di Cesare Brandi) entro uno spazio ristretto ma illusivamente infinito.
Prima, in questo spazio che dialogava in modo diretto con il riguardante (e perciò, prima ancora con l’artista), questi poneva un accadimento che giocoforza si legava a una verità esistenziale, fosse quella tanto semplice di una modella di fronte a lui (idealmente, s’intende) atteggiata in modo che il dettaglio còlto sul quadro diventasse l’implicazione del tutto.
Ora, nello spazio che presuppone la medesima dialettica tra calma e angoscia, tra rasserenamento e orgasmo – ma come ne avesse tolto o scansato il movente – consiste appena una larva di quella presenza, larva inafferrabile e ambigua.
Ve una relazione tra l’immagine e l’idea del tempo, che è un “presente infinito”.
Vale a dire che in questo vortice panico nel quale l’artista s’avvolge c’è come un’antinomia del sentimento figurale classico: donde questo suo, oggi, quasi diniego dell’immagine, forse passeggero forse non, forse un’ipotesi di lavoro o di ricerca, forse – lo dirà il futuro – un più rasserenato esistere dinanzi agli stimoli, quanto intriganti, sempre!, della pittura.
È noto che Sarnari usi una tecnica che lo apparenta a Seurat – già altrove lo scrivemmo – ma va anche detto che si tratta di un sistema utile a situare l’artista dentro l’immagine e non fuori di essa, ulteriore conferma degli opponenti poli entro i quali si dibatte.
È come se, aggregando e dissolvendo la materia pittorica, egli accentuasse il suo rifiuto di un presente storico per quel presente immateriale e infinito che s’è già detto.
Forse, nelle opere di qualche anno fa era ancora possibile reperire una calma olimpica (la chiamammo canoviana, non l’intendevamo freddamente neo-classica), che si trasferiva in una prospettiva distesa, “a cielo aperto”.
Ora, quest’oculo del romano Pantheon (che faceva dire a Calder, quando vi era dentro, di sentirsi come dentro una macchina fotografica) si è chiuso per Sarnari.
La luce è rimasta nell’ambiente, pavida, tremula e non ancora ombra.
A fissare uno di questi suoi dipinti recenti, si finisce per intravedere l’ombra, l’impronta, la traccia, nel barlume misterioso, di una realtà: essa è, tuttora, la verità delle cose del di dentro, la verità, come direbbe Verlaine, “de quelque présence connue” che, attesa, mai più verrà.
Giovanni Carandente
Roma, marzo 1980.
tratto dal Catalogo: “Franco Sarnari”
Edizioni Galleria del Naviglio – Milano
Direttore Renato Cardazzo
Catalogo stampato in occasione della 722a Mostra del Naviglio
10 – 18 Aprile 1980