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“I miei reportage, racconti di riscatto e di speranza”. Intervista al fotografo Marco Palombi

di Teresa Lanna.

"I miei reportage, racconti di riscatto e di speranza". Intervista al fotografo Marco Palombi

Una vita trascorsa a documentare sul campo le difficili condizioni di vita dei popoli del terzo mondo; e non solo. Trovarsi a stretto contatto con problematiche di scottante attualità, e di non semplice soluzione, come la questione dei migranti.
Documentare ogni cenno del capo, volto, espressione, azione, con l’intento di contribuire, attraverso le immagini, alla costruzione di un futuro migliore; quello che può nascere solo dalla consapevolezza che i disagi, i dolori e le piaghe di un essere umano, sono quelle di tutti, e farle conoscerle attraverso strumenti come la macchina fotografica vuol dire già fornire un aiuto concreto e, simbolicamente, fare un gesto di solidarietà di non poco conto.
Questa è, da sempre, la “missione” compiuta dal fotografo Marco Palombi.

Marco Palombi – Cina Guizhou-Guangxi, villaggio Long Horn

L’intervista

[Teresa Lanna]: Lei da più di trent’anni viaggia per raccogliere immagini e video per i suoi reportage dal mondo. Se dovesse scegliere uno scatto che, tra le migliaia, rappresenta la “summa” della sua ricerca artistica, quale le viene subito in mente?

Marco Palombi in Somalia, Regione di Sanaag, Campo profughi

[Marco Palombi]: Difficile la scelta, soprattutto perché i ricordi sono tanti. Un’immagine, però, a cui sono molto legato, e che mi viene in mente, è quella di una donna che prega girando in circolo nella cattedrale di Port-Au-Prince, distrutta dal terribile terremoto del 2010.

Le minoranze etniche, i popoli nomadi e i contrasti tra occidente ed oriente sono diventati il fulcro del suo lavoro. Quali, tra i vari paesi visitati, è stato più arduo documentare, e perché?

Potrei fare l’esempio di due paesi in cui mi sono trovato più volte in difficoltà. In Cina, ma non nelle grandi metropoli; intendo la Cina rurale, dove, per via della lingua, era veramente difficile la logistica, il quotidiano; dove mangiare e dormire ma, soprattutto, comunicare con la gente, mi ha messo a dura prova. Inoltre, in Etiopia, nella valle dell’Omo, dove per fare un reportage sono andato incontro a difficoltà di origini sociopolitiche, perché non si poteva esporre il problema delle tre dighe, costruite per interessi economici, che tolgono acqua al fiume e costringono le varie etnie della valle (agricoltori e pescatori) a lasciare le proprie terre. Fortunatamente, ho trovato una guida locale che mi ha aiutato molto, perché, essendo nato proprio lì nella valle del fiume Omo, mi ha aperto molte porte. Grazie a lui, infatti, ho potuto conoscere ed intervistare le tribù del posto, culla della nostra civiltà, che mi hanno raccontato la verità.

Marco Palombi – Haiti, 2011, Port Au Prince, Cattedrale

Lei, dal 2007, pubblica i suoi reportage su La Repubblica e La Stampa. Com’è nata la collaborazione con queste testate e quali sono le richieste che più spesso le vengono fatte (in termini di: grandezza della foto, soggetto, inquadratura, etc.)?

Dopo aver lavorato a lungo con le agenzie fotografiche, ho iniziato a fare il freelance vendendo ai giornali i miei scatti. Uno dei primi reportage è nato dalla collaborazione di Terre des Hommes e un giornalista de La Repubblica, nella rubrica Mondo Solidale ad Haiti. Da quel momento in poi ho iniziato a dare visibilità ai progetti di tante ONG, in paesi del terzo mondo a volte molto complicati. La cosa che un po’ mi dispiace è che oggi mi chiedono di produrre un video di pochi minuti a scapito di una galleria di fotografie, e che il tempo di una missione dura troppo poco… Interviste e storie sul campo hanno spesso il sopravvento sugli scatti, ma ritengo che la potenza di una fotografia, ossia immortalare l’attimo, sia sempre importante.

Marco Palombi – Etiopia, Provincia di Arba Minch

Le tante esperienze in giro per il mondo hanno sicuramente cambiato la sua visione delle cose; come definirebbe il Marco di ieri e di oggi?

Diciamo che il Marco di ieri era molto più sognatore; anche riguardo al mondo fotografico, partivo con tantissimi rullini e, quando tornavo a casa, c’era la magia, dopo un mese, di trovare scatti dimenticati nei provini, nel bene e nel male… Oggi, invece, sono più realista e devo fare i conti con la realtà in contesti difficili; bisogna lavorare velocemente per portare ai giornali un prodotto finito, compreso di montaggio. Si corre troppo, secondo me; in tutti i sensi.

Il suo lavoro espone a rischi e pericoli continui; le è mai capitato di pensare “Ora lascio tutto”?

No, mai; a volte è pericoloso anche girare nella propria città… E, poi, penso che valga la pena correre qualche rischio. Mi affido alle persone che conoscono il luogo ed ascolto sempre i consigli di chi vive lì. Mi sono trovato in paesi dove c’è alto rischio (Somalia, Iraq, Siria…), ma non ritengo di essere un fotografo di guerra; non cerco mai lo scatto a tutti i costi.

In tutti questi anni, quali reazioni le è capitato di registrare, rispetto ai suoi scatti, da parte delle persone che via via immortalava? C’era paura o, viceversa, voglia di far sentire la propria voce, di riscattarsi?

Quando entro in un contesto delicato o in una situazione realmente difficile, cerco di farlo con discrezione, chiedendo il permesso, cercando di instaurare un rapporto con la gente prima di fotografare. Le persone, una volta a loro agio, si aprono e raccontano; la paura passa, e la maggior parte delle volte vogliono denunciare ciò che accade. Sì, vedo sempre nei loro occhi voglia di riscatto e speranza; per questo cerco sempre di riportare le loro storie, sentendomi responsabile e in dovere di divulgare i loro problemi.

Lei, nel 2015, ha documentato, dal porto di Augusta, in Sicilia, il dramma degli sbarchi di migranti, che ricevono le prime cure nei numerosi centri di accoglienza. Oggi, dopo otto anni, cos’è cambiato rispetto ad un problema che stenta a trovare soluzione?

Quello, per me, è stato uno dei momenti più tragici e che non dimenticherò mai. Assistere al racconto di chi non è riuscito a salvare dal mare suo fratello è stato sconvolgente; ho atteso due giorni, sul molo, prima di iniziare a lavorare. Le persone che si sono salvate dal naufragio mi chiedevano di poter ricaricare i propri cellulari per comunicare alle famiglie che erano arrivati vivi. Oggi non è cambiato niente, anzi; pochi giorni fa, in TV, ho sentito frasi orrende, pronunciate senza sapere quello di cui si parla: ” Non dovete partire! Dovete sapere che si può morire in mare…”. Ecco, loro lo sanno.

Nel 2017, in Kazakistan, lei ha documentato il lavoro disumano dei minatori a meno 600 metri nelle miniere di Karaganda. Ci vuole esporre questa toccante esperienza?

Quando la gabbia arrugginita che faceva da ascensore ha iniziato a scendere per arrivare a meno seicento metri, in poco tempo mi sono ricoperto di fuliggine e carbone e mi si sono chiuse le orecchie. Ho pensato: “Perché? Chi me lo ha fatto fare?”. Sono stato circa tre ore laggiù, ma mi è sembrata un’eternità. Ho capito presto cosa vuol dire lavorare in miniera, e per di più senza tante norme di sicurezza; senza mangiare, e bevendo solo latte per turni di sei ore… Il tutto gestito da chi ha tanti soldi e che non ha per niente a cuore le tutele ed i diritti dei lavoratori. Negli anni passati ci sono stati tanti incidenti e tanti morti, proprio per la carenza di manutenzione e sicurezza delle miniere.

Alcuni suoi scatti sono diventati copertine di libri; ci vuole parlare di uno dei testi in questione, e di com’è nata la scelta della foto da parte dell’autore?

Quando la casa editrice Nottetempo cercava una foto per la copertina del libro Quando sei nato non puoi più nasconderti di Maria Pace Ottieri, dal quale è stato tratto il film omonimo di Marco Tullio Giordana, una mia amica che lavorava proprio in quella casa editrice ha proposto una serie di scatti, tra cui quello che alla fine è stato scelto.

Qual è il progetto fotografico che sogna di portare a compimento in un prossimo futuro?

Sarà un reportage che ha bisogno di tempo e di preparazione. Vorrei visitare la Papua Nuova Guinea ed incontrare gli ultimi aborigeni del pianeta. Mi piacerebbe restare nel posto per almeno un mese: il tempo è importante.

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tutte le immagini © Marco Palombi
Immagine in evidenza: Marco Palombi – Kazakistan, miniera di Karaganda