La scrittura con la luce come mezzo di indagine. Intervista a Monica Biancardi

di Teresa Lanna.

Nata a Napoli nel 1972, Monica Biancardi si laurea in scenografia con una tesi sperimentale sulla fotografia di teatro. Inizia, poi, a lavorare per importanti registi, svolgendo, al tempo stesso, l’attività di docente e realizzando personali ricerche.

Negli ultimi anni, il suo interesse per la fotografia l’ha portata ad indagare la “scrittura con la luce” attraverso altri mezzi, come le incisioni su superfici di plexiglass o di carta, la cui lettura è possibile solo se illuminate in un certo modo; questa ricerca trova massima espressione nel progetto “The catalogue of Huts” del 2022.
Si tratta di una riflessione sulla violenza di genere e il lockdown; una narrazione grafica scandita da cartine geografiche, da dati statistici, incisioni e graffi, che tracciano le tappe del racconto di un dolore nascosto da superfici trasparenti. Solo la luce e le ombre rivelano la realtà protetta d’una “capanna”, una casa che non è più rifugio ma prigione, spazio d’un incubo esistenziale reso dalla Biancardi con un linguaggio fanciullesco che facilita diverse riflessioni sulla condizione femminile. Il tema, infatti, è quello della violenza subita dalle donne.

La denuncia dell’artista parte dal periodo del lockdown, visualizzato in una mappa cartacea in cui le aree evidenziate con le date che indicano le chiusure, riportano anche all’aumento del rischio di subire violenza.
Il lavoro, che è un vero e proprio report, anche se rappresentato artisticamente, è però illusorio, in quanto troppi paesi – democratici e non – dichiarano percentuali assolutamente ingannevoli.
Ne risulta, quindi, il carattere del tutto fasullo, e ipocrita, del dato statistico. Il progetto è corredato da una serie di disegni di capanne incisi su carta ed, inoltre, di accessori o prodotti d’uso quotidiano incisi su plexiglass, rappresentati come armi a doppio taglio che attentano alla sfera femminile.

Abbiamo intervistato l’artista napoletana, ponendole alcune domande sul suo percorso professionale, che viaggia in parallelo con quello di vita.

L’intervista

[Teresa Lanna]: Lei si è laureata in scenografia con una tesi sperimentale sulla fotografia di teatro; quali caratteristiche deve avere una foto scattata in un ambiente così particolare come il teatro per trasmettere il senso del luogo?

Monica Biancardi

[Monica Biancardi]: Il teatro è stata la mia sala da ginnastica, ovvero un luogo circoscritto in cui allenarsi e nel quale vanno in scena delle azioni dirette da altri. Il mio lavoro è stato quello di costruire un altro spettacolo, parallelo, trasferendo fotograficamente il “proprio luogo”, perché quello che vede il pubblico è la costruzione del regista.

Tra gli importanti registi con cui ha lavorato, vuole parlarci del rapporto con qualcuno di loro e dell’esperienza che le ha lasciato tale collaborazione?

Tra i tanti, indimenticabile è stata l’esperienza vissuta alla fine degli anni ’90 con Carlo Cecchi, che metteva in scena, in tre diverse estati, la trilogia scespiriana, nel quartiere della Kalsa, presso il Teatro Garibaldi di Palermo. Quella di Carlo è stata una scuola di apprendimento al lavoro di creazione; ricordo ancora le lunghe ore di prova in un teatro fatiscente, dal tetto semiscoperto, in cui entravano gli uccelli durante “Sogno di una notte d’estate”.

La prima Credere, vent’anni di sguardi bianco/nero al sud Italia, viene in parte acquistata, assieme ad altri diversi lavori, dalla Bibliothèque Nationale de France. Qual è il criterio che ha seguito nel selezionare le varie foto e in quali luoghi ed occasioni sono state scattate?

Come tanti, ho seguito i riti al sud Italia, che per me hanno rappresentato un’altra palestra: alcuni li studiavo e poi andavo a cercarli; altri li ho fotografati grazie al gruppo di ricerca di antropologia facente capo al CNR di Roma, con cui ho lavorato. Con gli studiosi, mi recavo sul campo, in luoghi sperduti del meridione, nel corso di riti religiosi al limite tra sacro e profano che, nel corso degli anni, sono scomparsi o si sono ripuliti per adattarsi a riprese televisive o cose simili.

La sua prima mostra pubblica è Ritratti, inaugurata a Napoli nel 2003 per poi proseguire in giro per l’Europa vincendo vari premi. Vediamo volti di gente comune, cui viene associato il nome reale e la relativa professione. Dove ha avuto modo di conoscere la maggior parte di loro e quali, tra le diverse reazioni al suo interesse, l’hanno particolarmente colpita?

Ho chiesto a molte persone di essere ritratte; differenti per etnia, professione e categoria sociale. Pensando tutti rispondessero allo stesso modo, ho dovuto, in realtà, constatare il contrario. La domanda che credevo facile, ossia: “Come mostra le mani guardandomi?” ha sollevato palese imbarazzo anche nei soggetti più inaspettati che, nei pochi scatti loro riservati, hanno reagito porgendole in modo dimesso ma personale, dando vita a espressioni, verità e atteggiamenti diversi. Paradossalmente, la cosa più interessante è che le persone comuni si sono esposte con una semplicità che non ho riscontrato nei personaggi conosciuti, dove la restituzione del sé ha aspettative ben diverse.

Nel 2006 lei ha esposto al Castel Sant’Elmo di Napoli con Mutamenti, dedicata a suo padre. Ci vuole parlare di questa esposizione e del significato profondo che ha avuto per lei?

“Mutamenti” è un progetto che indaga la società attraverso i tre mondi naturali: animale, vegetale e minerale. La mutazione è messa in scena, attraverso il mezzo fotografico, all’interno dei tre mondi, ciascuno del quale dispone di 10 immagini b/n. di grande formato. Queste seguono uno schema prestabilito, secondo una logica evolutiva di tipo concettuale: dalla prima foto, che rappresenta la nascita, si giunge all’ultima, la decima, che è quella che rappresenta la malattia. Non si parla mai di morte, ma il punto nevralgico del lavoro è il cambiamento dello stato delle cose e della loro trasformazione, causata non solo dal tempo ma dalla società che convive con la malattia. Sia nel mondo animale, che in quello vegetale ed in quello minerale, le prime otto immagini e la decima sono fotografie di grande formato, mentre la nona immagine è un montaggio video proiettato in un monitor delle stesse dimensioni delle foto, che mette in scena la mutazione.

Lei è molto sensibile al tema dell’integrazione culturale e i titoli delle sue esposizioni evidenziano una forte spiritualità. Quanto conta per lei quest’ultima dimensione ed in che misura influenza la creazione artistica?

Da non credente, forse, la mia risposta potrebbe essere deludente; la mia fede è basata sull’amore tra esseri viventi, che trovo sia il motore per mandare avanti il pianeta. Tra alcuni di questi c’è empatia e tra altri meno; o nulla, addirittura. In ogni caso, muoversi nel mondo con curiosità e rispetto credo giovi a sé stessi e agli altri. La creazione artistica necessita di onestà e consapevolezza, altrimenti è un bluff che il tempo svela.

Negli ultimi anni, il suo interesse per la fotografia l’ha portata ad indagare la “scrittura con la luce” attraverso altri mezzi, come le incisioni su superfici di plexiglass o di carta la cui lettura è possibile se illuminate in un certo modo; questa ricerca è messa a frutto nel progetto The catalogue of Huts del 2022, esposto, nel gennaio 2023, presso Shazar Gallery. Come si è avvicinata a questo tipo particolare di “scrittura”?

La fotografia, nata due secoli fa, madre del cinema, è diventata, negli ultimi vent’anni, linguaggio universale alla portata di tutti; ma, inverosimilmente, il suo mercato è crollato, a dispetto delle altre arti, defilata nell’angolo come una Cenerentola. Volendole restituire il giusto valore, ho deciso d’indagare l’etimo del suo significato, adoperando altri mezzi, ma procedendo allo stesso modo: lavorare al negativo per ottenere un positivo.

Monica Biancardi – The Catalogue of Huts

Lei insegna Fotografia e Direzione della Fotografia. Quali mansioni ha il Direttore della Fotografia e quali caratteristiche deve avere per essere all’altezza del ruolo?

Sì; ho insegnato le materie menzionate in diverse accademie. Il DOP è colui che, assieme al regista, garantisce il prodotto cinematografico e, con lo scenografo, partecipa ai sopralluoghi per stabilire la scelta degli spazi in cui girare. È, inoltre, responsabile di tre gruppi di lavoro: elettricisti, macchinisti e operatori. Essendo il responsabile tecnico-artistico del progetto visivo, deve possedere conoscenze tecniche e artistiche per riuscire a tradurre le atmosfere dell’opera da affrontare, oltre che capacità umane per poter dirigere tanta gente.

Le sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche e private di arte contemporanea. Quale luogo, tra i tanti che ospitano i suoi lavori, riveste per lei un particolare valore, e perché?

La BNF, ossia la Biblioteca Nazionale di Francia. Il motivo è che si tratta di una delle più importanti istituzioni al mondo che archivia, acquistando, decine e decine di prodotti da ogni parte del mondo, come è giusto che faccia un luogo di cultura, permettendo, in questo modo, a migliaia di persone di accedervi per poter studiare.

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Tutte le immagini © Monica Biancardi
Immagine in copertina: Monica Biancardi – Nuovo spazio di Casso (Pordenone), foto Giacomo De Donà. Immagine in evidenza: Monica Biancardi – Cecità