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La visionarietà stupefacente del digitale. Intervista a Matteo Basilé

di Fabiana Maiorano.

La visionarietà stupefacente del digitale. Intervista a Matteo Basilé - di Fabiana Maiorano

Sono cariche di un fascino sospeso nel tempo le opere di Matteo Basilé, all’anagrafe Matteo Cascella, quinta generazione della nota famiglia abruzzese di pittori e scultori. Un background di tutto rispetto e ricco di stimoli dati dal contesto, che spronano l’artista alla ricerca di un personalissimo percorso che lo porta ad esordire dapprima come graffitista e successivamente, con l’avvento delle nuove tecnologie, come uno dei primi e lungimiranti autori che negli anni novanta iniziano a coniugare arte e contenuti informatici, sviluppando nuovi mezzi espressivi attraverso cui pittura e fotografia si convertono in immagini digitali. Su queste Basilé sperimenta le proprie idee arrampicandosi in una visionarietà stupefacente, inventa un proprio modo di raccontare storie per immagini manipolando la realtà e piegandola al proprio sguardo, scavando nell’essenza più vera dell’umano liberandolo dalla superficialità e accentuandone le diversità. Tra sogno e ragione, attraverso la bellezza e la bruttezza, la normalità e la deformità, i suoi soggetti appartengono ad un mondo multiculturale calato in scenari sospesi nel tempo, contaminati digitalmente con suggestioni ispirate al mondo del cinema e alla storia dell’arte. Atmosfere oniriche felliniane e scene surreali fanno da sfondo al popolo delle sue fotografie: un popolo della strada raccontato nella sua essenza più pura, tra ragione e istinto senza filtri, con un gusto quasi neorealista che ricorda Pasolini, ma con il riscatto talvolta in chiave sacra come faceva Caravaggio. Sono eroi classici e allo stesso tempo persone comuni, si travestono e si trasformano, esibendo la loro dignità tra drappeggi e costumi teatrali, giocando come le epoche e con gli stili. Sono meravigliose trasposizioni di un contemporaneo intercambiabile dove si può essere “uno, nessuno e centomila”.

L’intervista

[Fabiana Maiorano]: come ti sei avvicinato al digitale, all’arte e a questo tuo particolare stile fotografico-pittorico?

[Matteo Basilè]: tutto nasce fondamentalmente dalle mie origini. Vengo da una grande famiglia di artisti che ha sempre dipinto, ha sempre scolpito, ha sempre toccato la materia in tutti i suoi modi e in tutte le sue forme e quindi ho mangiato pane e arte sin da piccolo. Quasi come una reazione a tutto questo ho iniziato ad esplorare altri mondi: erano gli anni ‘90, la musica e la cultura hip hop arrivarono in Italia ed io ho iniziato a conoscere i graffiti e la street art. Il mio primo approccio all’arte è stato proprio con il graffito, quindi con gli spray, un escamotage perfetto per lavorare la materia senza toccarla, in più emetteva un suono che era un po’ la colonna sonora di quella cultura e questa idea, unita a quella di realizzare cose in spazi proibiti mi elettrizzava molto. Poi ho scoperto il computer e questa novità era ancora più avvincente e meravigliosa perché potevo raccontare storie in modo veloce attraverso le immagini. Ho cominciato a sperimentare la realizzazione di immagini con il computer e di conseguenza la loro trasposizione nel mondo reale attraverso le prime stampe digitali. Sono il figlio del passaggio dall’analogico al digitale.

Ricollegandomi alla questione dei graffiti e della street art, in un certo senso nelle tue fotografie è sempre presente l’elemento della strada. Ci sono dei soggetti molto particolari che sono il popolo delle tue fotografie, un popolo che vive la strada, di stampo quasi caravaggesco o addirittura pasoliniano…

…assolutamente si. Mi piace molto lavorare con personaggi che sono abitanti “invisibili” del mondo, i quali tra bellezza e mostruosità raccontano il lato umano più oscuro, più affascinante, che è quello che racconto in tutte le mie storie. I miei racconti sono sempre un po’ borderline: narro la follia, la santità, la femminilità e la mascolinità; tutta la mia ricerca si basa su questa umanità così diversa.

Ho notato dei riferimenti alternanti tra cinema e pittura. Da una parte ci sono suggestioni oniriche felliniane riconducibili volendo, ai soggetti e agli scenari surrealisti del pittore Ernst, dall’altra c’è un’umanità popolana che mi ricorda i protagonisti dei racconti di Pasolini e persone prese dalla strada e riscattate come faceva Caravaggio. La cinematografia è strettamente connessa ai tuoi lavori?

Senza ombra di dubbio i collegamenti che hai fatto sono alcuni dei miei punti di riferimento. Ovviamente poi man mano che si procede col lavoro si innesca tutta una cinematografia di riferimento a cui posso ispirarmi, tutta una serie di visionari che come me raccontano il mondo come cambia, il mondo tra oriente e occidente, tra reale e surreale.

Ho visto un tuo progetto, “Thishumanity”, che mi ha molto colpita e ha ispirato il mio ragionamento sul popolo delle tue fotografie.

Questo è stato un lavoro che realizzato mentre vivevo a Bali. Sono tanti ritratti di donne ed è un lavoro sulle minoranze, delle quali racconto la più importante, ossia – ahimé – quella femminile. Il progetto globale era quello di realizzare sei o sette scontri tra minoranze, ad esempio albini contro albini, dunque le ho fatte lottare. È stato un lavoro molto bello e molto intenso poiché risulta essere il più grande ritratto della femminilità a trecentosessanta gradi, visto che ci sono donne che vengono da mondi e culture diverse, di età differenti. È stata una battaglia al femminile, il mio tributo all’identità femminile di donne, madri e poi guerriere.

Che tipo di rapporto instauri con i soggetti delle tue fotografie?

Col soggetto ho un rapporto molto intenso, perchè molte volte le storie nascono da un incontro casuale, magari alle volte vedo una persona e dico: “cavolo, sei la perfetta per raccontare la storia che avevo in mente!”. Il mio è un lavoro di collaborazione vero e proprio, non mi limito mai a far mettere semplicemente in posa i modelli, bensì cerco sempre la complicità con le persone, anche perchè in molti casi non sono abituate a stare davanti a un obiettivo e la loro reazione a questo è anche la parte più affascinante.

Matteo Basilè – Il peso delle cose, 2005

C’è un elemento ricorrente nelle tue fotografie?

Ci sono tanti elementi in realtà. Ci sono sicuramente le atmosfere particolari che fanno parte del mio stile, poi gli elementi grafici e gli interventi che faccio sulle fotografie… C’è un fil rouge di elementi che lega un po’ tutte le mie storie da circa trent’anni a questa parte. I miei lavori sono tanti fotogrammi diversi che compongono un grande film di storie che non finisce mai. Questo mi dà la spinta per proseguire, per continuare a viaggiare ed esplorare, per approfondire certi meccanismi e certe dinamiche. I miei set anche sono piuttosto cinematografici, pensa che anche solo per un ritratto c’è dietro un lavorone legato alla costruzione scenica. C’è tutto un lavoro dietro, che quello al computer è solo una minima parte.

Matteo Basilè – Imago mundi II – Hybrida

Ci sono progetti ai quali sei più legato?

Ci sono progetti che mi hanno stupito per la riuscita. Molte volte ci sono degli incontri che mi fanno innamorare del soggetto, anche se poi magari la fotografia non rende giustizia all’idea iniziale. Succede spesso che lo scatto non riflette le mie emozioni, quello che provo e che vorrei trasmettere. Succede, come succede il contrario. Molte volte è importante il viaggio, talvolta vado in un posto con un’intenzione, poi basta una luce o una folata di vento per stravolgere i piani. Questo è meraviglioso.

Qual è l’essenza della fotografia che scandisce l’attimo che ti da l’ok per scattare, che ti fa dire “è la fotografia perfetta”? Esiste una fotografia perfetta?

In realtà è una soddisfazione. È un po’ come in cucina: bisogna sapersi fermare. La sapidità è quella giusta? Ci vuole una scorzetta di limone? Ci va il piccante? Ci vuole che l’ingrediente sia giusto e dire “Ok, perfetta!”, anche se la ricetta non ha ancora un nome dentro di te sai che è perfetta. Succede così anche nello scatto fotografico.

C’è stato un momento in cui il pubblico non ha apprezzato un progetto o uno scatto che per te era perfetto, o viceversa?

Quando ho affrontato tutto il lavoro con i transessuali e i nani il pubblico era piuttosto contrariato, nonostante fossi convinto che piacesse, che interessasse. Alla fine però basta anche solo una persona che si ferma ad apprezzare e comprendere il mio racconto perché, in generale, non lavoro per compiacere il grande pubblico. Non mi interessa, sono come un cinema d’essay, di nicchia. Sarei bravissimo a fare foto di moda ad esempio, ma non è nelle mie corde. In mente spesso ho delle immagini che sono molto più dure e che so che magari sul mercato non sfonderanno, ma per la mia ricerca sono essenziali.

Le tue fotografie, che hanno comunque una sensibilità estremamente italiana al classico e alla bellezza, con questi tableaux vivants che inscenano, cosa raccontano?

Raccontano l’umano senza tempo. Ci sono molti riferimenti al sogno, all’antichità e al contemporaneo.

Matteo Basilè – Circle of sinners #3, 2010

In conclusione, dall’analogico al digitale, agli NFT. Considerazioni a riguardo?

Dagli anni novanta quando ho iniziato, poi sono diventato un fotografo sperimentatore del digitale, l’ultima mia frontiera su cui sto lavorando è proprio questa degli NFT, dunque sono tornato al digitale puro, alle immagini digitali, a progetti di questo tipo. Ho creato artitude.ai, una piattaforma digitale che promuove il concetto di Made in Italy in termini di qualità della ricerca. È un periodo storico abbastanza straordinario per questo tipo di situazione tecnologica culturale.

Con l’avvento di NFT sei rimasto in linea con le sperimentazioni digitali, anche se parlare di “avvento” è sicuramente scorretto, dato che queste tecnologie non sono recentissime, ma da un paio d’anni sono state sdoganate e se ne parla spesso.

Ha riacceso un po’ una voglia di affrontare delle cose che avevo iniziato ormai trent’anni fa e che le tecnologie dell’epoca avevano limitato. Oggi con queste innovazioni posso riprendere certe storie, certe ricerche e costruzioni di scenari.

Restando in tema di NFT, pensi che il mercato della fotografia sia cambiato o abbia lo stesso valore?

Secondo me la blockchain oggi potrebbe rimettere in ordine il caos del sistema dell’arte attuale. Potrebbe essere un sistema preciso, ovviamente legato ad una nuova economia che può dare uno slancio ad un sistema che in qualche modo aveva collassato. Può essere un passo avanti non da poco, su cui occorrerebbe riflettere.

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Tutte le immagini © Matteo Basilè

Immagine in evidenza: Matteo Basilè – PietraSanta, 2016

Matteo Basilè – Viaggio al Centro della Terra, 2017