Gender Fluid

L’essenza del paesaggio mediterraneo. Intervista a Togo

di Mariateresa Zagone.

L'essenza del paesaggio mediterraneo. Intervista a Togo

Togo, nome d’arte di Enzo Migneco, nasce a Milano nel 1937. Dopo varie vicissitudini legate al periodo bellico e postbellico, nel ‘47 torna a Messina, città d’origine della famiglia di cui fa parte anche lo zio Giuseppe Migneco.
Tra gli anni ’50 e ’60 la città dello Stretto è centro di un animato dibattito culturale che si sviluppa intorno alla libreria OSPE e alla casa editrice D’Anna, famiglia del pittore Giulio, futurista di seconda generazione.
Tuttavia nel 1962 lascerà l’Isola per Milano, allora vero centro d’innovazione della cultura europea. Qui apre un suo studio dando il via ad una fervida stagione di mostre collettive e personali che con grande continuità rimane ininterrotta fino ad oggi.

Negli anni ’70 si avvicina alla grafica, tecnica che lo appassionerà moltissimo, tanto che Raffaele De Grada gli offrirà la cattedra di incisione all’Accademia di Belle Arti Aldo Galli di Como.
Si susseguono le mostre di grafica e pittura che raccolgono l’attenzione della critica e del pubblico.
Ricca la sua attività anche in Sicilia, la terra d’origine che sarà punto di riferimento e ispirazione ininterrotta per l’artista.

Partito da una pittura derivata dalle esperienze realiste siciliane, Togo approda presto a un suo stile liberamente espressionista.
Un espressionismo luminoso vicino alla declinazione fauvista e, al contrario, lontanissimo dalle tensioni esistenziali di area germanica. Il colore libero, acceso e vigoroso è l’elemento cardine della poetica di Togo, traduzione della luce naturale del mezzogiorno.
L’artista dichiara così la propria mediterraneità, le sue tele sono la sintesi di paesaggi caldi e avvolgenti, pieni di quell’energia magica e penetrante che gli abitanti dell’Isola conoscono da sempre.

L’intervista

[Mariateresa Zagone]: Come e quando è nato l’amore per la pittura?

Togo

[Togo]: Ho cominciato a disegnare, fra i dieci e i dodici anni, appena giunto a Messina con la famiglia. Mi piaceva e mi accorgevo di avere una bella mano, veloce, capace di ritrarre soprattutto i volti. Disegnavo su blocchetti per appunti, essenzialmente ritratti e caricature degli avventori ai tavolini del bar. Giunto all’età delle scuole superiori mi sono iscritto alla scuola più vicina che era un istituto tecnico per ragionieri. Il liceo artistico non c’era allora in città e sarei dovuto andare a Reggio Calabria. Ho fatto la prima mostra nel 1961 con il pittore Enzo Celi e con la critica di Vincenzo Palumbo. In quegli anni Messina era animata da grande vivacità culturale e, fra gli intellettuali riuniti intorno alle librerie Ferrara, D’Anna, Ospe si potevano annoverare personalità come Salvatore Quasimodo, Salvatore Pugliatti, Giulio D’Anna e molti altri. Erano però più vecchi di una generazione rispetto alla mia e dei giovani pittori che allora frequentavo e con i quali ci riunivamo quasi ogni sera al bar Nettuno. Sono stati momenti bellissimi e fecondi in cui mettevamo in discussione ogni certezza.

Poi nel ‘62, sei tornato a Milano. Quanta importanza ha avuto la città lombarda nella tua carriera?

La Milano di quegli anni è stata una realtà quasi pirotecnica, avanguardista, dinamica come adesso non sarebbe nemmeno immaginabile, erano proprio altri tempi! Frequentavo il Bar Jamaica, nella zona di Brera, e lì erano di passaggio Lucio Fontana, Piero Manzoni, Renato Guttuso, Ennio Morlotti, Giuseppe Migneco gli artisti della generazione successiva come Castellani, Bonalumi e Dova. Io frequentavo Lino Marzulli, Umberto Faini e Vitale Petrus, artisti a me vicini come età e modo di sentire. Il mio studio era aperto e ospitavo spesso giovani artisti che venivano a Milano per misurarsi con la città. Ne ho ospitati parecchi anche per lunghi periodi. Dai pittori del gruppo CO.BR.A., che spesso esponevano le loro opere nelle gallerie milanesi, ho imparato che la pittura poteva realmente essere “altro”. Mi colpiva in particolare Corneille che con la sua pittura libera mi ha aiutato a togliermi di dosso la scorza di “provinciale”.

Anche se in parte hai già risposto ti chiedo com’è la Milano di adesso?

Intanto oggi è più dispersiva ed è anche meno propositiva. Allora c’erano momenti di grande sinergia fra le arti e anche fra artisti non acclamati. Per un’opera di Geri Palamara, ad esempio, Davide Boriani, del gruppo T, fece la scenografia e io la parte iconografica.
Erano momenti di grande fermento e ci si riuniva spesso negli studi. Io e mia moglie Graziella avevamo inventato “I mercoledì a cena da Togo”. Ho avuto così modo di conoscere poeti, pittori, critici d’arte e anche personaggi della musica leggera.

Togo nel suo studio a Milano

Spesso sei stato definito un pittore Neoimpressionista, io non amo molto le definizioni nette ma vedo maggiormente, nell’epifania dei colori primari, un debito all’espressionismo di marca francese, quindi fauvista. Penso soprattutto alle opere di Derain, De Vlaminck e Matisse realizzate sur la plage, a Collioure.

Sì, amo Matisse e Derain. Sono pittori di luce, di grande energia vitale, e amo moltissimo anche Gauguin.

Il percorso di un artista, di solito, non è mai lineare. Spesso ci sono fughe improvvise seguite da ritorni. Penso ai “grandi vecchi”, a Bellini come a Tiziano, a Monet come a Picasso. Come si pone Togo rispetto al proprio percorso se si volta indietro?

Vedi, scoprire un timbro e portarlo avanti tutta una vita non fa per me. Io ho bisogno di mettermi in gioco continuamente. Ti racconto uno dei tanti episodi della mia vita artistica: nell’ ‘81 ho fatto una mostra alla Galleria Annunciata a Milano (la stessa con la quale aveva un contratto Carlo Carrà, per intenderci) con la critica di Paolo Volponi. Il gallerista Grossetti mi disse “Togo, i suoi lavori sono belli ma sono troppo scuri, non venderà nulla” ma io me ne sono sempre fregato di questi aspetti, sentivo di fare quello e quello ho fatto. Il colore poi è tornato nelle mie tele per poi tornare ancora agli scuri negli anni ‘90

Mi commuove spesso la frase di Cézanne “Mi trovo in un tale stato di turbamento mentale, in un turbamento tanto grande che temo a volte che la mia debole ragione non regga… arriverò un giorno allo scopo così tanto cercato e così a lungo inseguito? Studio sempre la natura dal vivo e mi pare di fare qualche lento progresso” Qual è il tuo rapporto con la natura?

Mi appartiene profondamente questa frase di Cézanne. Io vomito tutto sulla tela, tanto che svuotato, devo uscire a prendere aria, a riprendere ossigeno. La pittura è esattamente questa cosa qui, è riversare sulla tela tutta la mia forza del momento. L’ispirazione non esiste, non arriva se non lavorando. La pittura mi prende tutto, mi capita spesso, quando torno a casa dallo studio, alle nove di sera, di pensare “stasera ho scoperto la pittura”, e non ci ero arrivato prima. E’ l’esperienza quotidiana ad aprirmi gli occhi.

Forse la frase più conosciuta di Cézanne è “trattare la natura attraverso il cilindro, il cono, la sfera”. Ad un certo punto le tue opere cominciano ad avere una partizione geometrica, un approccio più riflessivo e meno immediato. Una sintesi che operi a partire dagli anni ‘80. Come mai?

Mi sono reso conto (anche se lo sapevo da sempre) che dipingere non è descrivere ma entrare dentro e creare il proprio mondo. Nei miei quadri non ci deve vivere nessuno, posso fare ciò che voglio, alterare i colori, le proporzioni, ribaltare la prospettiva.

Per te la pittura ha una dimensione morale?

Si, e consiste nell’essere il più autentico possibile, prima di tutto con me stesso. E’ la parte libera, quella universale che può appartenere a tutti. Se riesco ad aggiungere al grande mosaico la mia tessera anche piccola ma autentica, credo di aver dato il mio contributo. E’ un gesto piccolo, non c’è bisogno di gesti eclatanti, ed è un gesto politico a questo proposito ho intitolato un autoritratto “c’è ancora speranza”. Fino a che un umano trova nell’arte la capacità di esprimere i propri sentimenti la sua specie ha ancora speranza.

Ad un certo punto, intorno agli anni ‘70, hai abbracciato con entusiasmo l’incisione. Ne vuoi parlare?

Come ho detto in questa intervista ho iniziato disegnando. Il mio strumento era la matita. Il segno mi era congeniale e l’incisione è profondamente segnica.
Sono diventato incisore da autodidatta. La parte alchemica dei procedimenti dell’incisione mi appartiene a pieno. Per questa mia qualità sono stato chiamato da Raffaele De Grada, Presidente dell’Accademia di Belle Arti Aldo Galli di Como, ad occupare la cattedra di calcografia della stessa accademia .Esperienza straordinaria che mi ha impegnato per cinque anni.

Nella tua pittura ci sono soggetti ricorrenti come le isole e il mare e fai anche uso di simboli.

Ho avuto la sventura di vivere la morte di mia madre a 11 anni, appena tornato a Messina. Mio padre, reduce dalla guerra, si è trovato da solo con noi bambini senonché una zia, sorella di mio padre che insegnava scienze a Lipari, si offrì per farmi stare da lei. Un’ esperienza straordinaria che mi ha fatto innamorare delle Eolie che ho rivisitato tantissime volte negli anni e che sono diventate le isole simbolo nei miei dipinti. A Lipari ho visto per la prima volta dipingere en plein air. Si trattava di un pittore tedesco, ancora confinato al Castello, che sul cavalletto a tre gambe dipingeva gli scogli dell’isola. Io non sapevo nulla di pittura allora ma questa immagine, e quei luoghi, mi sono rimasti dentro.

Togo – Sole d’agosto,, 2008, olio e acrilico su tela cm 60×80

Guardando le tue opere si nota chiaramente che col passare degli anni la figura umana scompare o viene fortemente marginalizzata.

La figura è sempre un elemento che torma ma non è mai essenziale. C’è sempre, invece, l’orizzonte, perché ho bisogno di una certezza, e c’è sempre il mare. Io sono da sempre pescatore subacqueo, il mare è il mio elemento. Del resto tutti noi siamo nati nell’acqua.

Si è da poco conclusa la tua antologica al Museo della permanente a cura di Luca Cavallini. Me ne vuoi parlare?

E’ stato un percorso straordinario che mi ha permesso di vedere il mio lavoro in maniera ordinata perché allo studio vedo e vivo i quadri singolarmente. Si articola lungo tre direttrici. La prima riguarda le incisioni degli anni ‘70 e ‘80, le seconda riguarda il gruppo dei “lavori neri”, opere su carta di grandi dimensioni applicate su tela o tavola che costituiscono un passaggio intermedio fra l’incisione e la pittura successiva. Il terzo nucleo di opere riguarda una serie di dipinti ad olio ed acrilico su tela degli ultimi cinque anni, nelle quali ritorno, con i colori chiari, a riscoprire la luce.

Ultima domanda: quali sono i tuoi prossimi progetti?

Una personale al MOMA di New York per il mio 185° compleanno! Gli amici sono tutti invitati.

Immagine in evidenza: Togo – Agosto, olio e acrilico su tela, 80×100
Tutte le immagini: © Togo