Muholi: corpo e rivoluzione

di Ginevra Amadio.

Muholi: corpo e rivoluzione

È un’“artivista” Zanele Muholi (Umlazi, Sud Africa 1972), e già questa espressione focalizza la cifra anfibia del suo lavoro, il trovarsi tra campi che si intersecano (quello dell’attivismo e dell’arte) cogliendo persino nella lingua la sensibilità di un periodo storico, un’idea nebulosa e sfrangiata che necessita di parole nuove per dirsi, di espressioni atte sostituire moduli insufficienti o inadatti.

Zanele Muholi all’International Gay and Lesbian Film Festival «Side by Side» (Wikimedia Commons)

Per chi è nata nel Sudafrica avvelenato dai conflitti socio-razziali mischiare azione e pensiero appare, del resto, la via più immediata alla “rivoluzione”. Così esperisce col corpo Muholi, sperimenta le violenze del regime saggiandone i soprusi, gli abusi. Come forma di opposizione sceglie la performance, si immerge nella lotta aderendo a un attivismo visivo e politico che è, anzitutto, espressione di un’identità divergente, il tentativo di fare i conti con ciò che è indicibile, fuori forma e fuori canone.

Sottoposta a una duplice brutalità – quella della segregazione e della persecuzione contro la comunità LGBTQIA+ – l’artista elabora un percorso ossessivo che trova nella serialità e nel lavoro preparatorio all’opera un punto di coagulazione coerente, l’esito di una somma di interrogativi, di esperimenti sensoriali.

I suoi scatti, all’apparenza giocati sulla rievocazione esotica dell’Africa nera, nascondono un preciso intento di denuncia, intimamente legato alle sevizie subite dalle comunità nere LGBTQIA+. In questa prospettiva, lungo un cammino di esplorazione e denuncia, l’artista dà voce agli ultimi, agli emarginati, espone l’orrore della violenza di genere e di ogni pratica ghettizzante, l’estrema disumanità del quotidiano, fitto di fantasmi e di tormenti.

Regal strength and stoicism: Qiniso, The Sails, Durban, 2019, a self-portrait by Zanele Muholi. Photograph: Courtesy of the artist and Stevenson, Cape Town/Johannesburg and Yancey Richardson, New York

C’è un senso di disagio nel bianco e nero di queste foto, come se la scelta acromatica servisse in partenza a tradurre la bidimensionalità del mondo attuale, schiacciato da logiche predatorie, da meccanismi che si ripetono rapaci, ponendo l’Occidente dinnanzi alle sue responsabilità, ai vuoti che non riesce a colmare, all’identità che non sa rielaborare.

«Il bianco e nero ci rappresenta esattamente per ciò che tutti noi siamo» dichiara Muholi, e viene alla mente la riflessione sciasciana sul ritratto fotografico, su quell’«attendibilità che non pone o allontana il problema della somiglianza fisica e però restituisce il senso di quella vita, di quella storia, di quell’opera compiutamente, in “entelechia”» (Leonardo Sciascia, Sulla fotografia, Mimesis, Milano 2021). Il passaggio dalla potenza all’atto che il termine filosofico (aristotelico) esprime è ripreso dall’autore di Racalmuto con chiaro riferimento, anche, alla teoria di Roland Barthes (La camera chiara¸ 1980) all’idea che sia possibile ri-trovare la “verità del volto” in ciò che esiste in essenza e non richiede, dunque, una somiglianza fisica, una mera corrispondenza di segni tangibili.

In tale prospettiva, Muholi – che ha rinunciato al nome e parla di sé usando il plurale generico they – racconta un’identità collettiva, assume l’autoritratto come strumento di rivolta e mezzo di rappresentazione della comunità nera omosessuale che nel suo volto trova voce e corpo, una nuova via d’accesso allo sguardo altro, finalmente spoglio dalle scorie coloniali.

Zanele Muholi – Sebenzile-Parktown, 2016, © Zanele Muholi – Courtesy of the Artist and Stevenson Cape Town, Johannesburg-Amsterdam and Yancey Richardson, New-York

È un rovesciamento quello attuato dall’artista, una riscrittura che passa dagli occhi e dalla nudità, dal rinnegare il sentimento della vergogna, dall’esposizione di ciò che appare disturbante perché sovversivo, non più oggetto di osservazione ma soggetto produttore di saperi e conoscenze. Un lungo percorso di riscatto quello predisposto da Muholi, che pesca dall’avanguardia e dal riuso straniante degli oggetti come un Duchamp in chiave black, là dove le sevizie dell’apartheid vengono rievocate da un pneumatico di gomma intorno al collo (che esecuzioni sommarie veniva impregnato di benzina), da cavi per batterie o fascette utilizzati per rievocare acconciature tipiche, come a narrare il senso della bellezza, la sua capacità di far fronte all’orrore.

Assumendo una prospettiva interstizionale che, non a caso, trova origine nell’ambito femminista afro-americano, Muholi riflette sulle categorie di oppressione che pongono genere, razza, classe, sessualità, religione, su un piano di coesistenza e azione simultanea per rimarcare le variabili percettive, le discriminazioni di genere esperite in varia forma a seconda del luogo in cui si nasce, in cui ogni esistenza si consuma. Passo dopo passo, gettando il corpo nella lotta.
Ginevra Amadio

Immagine in evidenza: Zanele Muholi – Ziphelele (part.)
Copyright: tutte le immagini © Zanele Muholi