Quayola. Re-coding: algoritmi ed esplorazioni generative di un moderno Ulisse

di Paola Milicia.

Quayola. Re-coding: algoritmi ed esplorazioni generative di un moderno Ulisse

Se il termine di Intelligenza Artificiale può dare adito a considerazioni tecnofobiche, con una buona premessa che articoli meglio le circostanze, i meccanismi e i diversi aspetti del fenomeno di cui realmente si sostanzia, allora, operazioni che si avvalgono di sistemi di Machine Learning (ML, apprendimento automatico) e di software generativi, come quelle di Davide Quayola, dovrebbero funzionare senza troppi pregiudizi.

Ovviamente, funzionano già, e questo a dispetto di un generalizzato equivoco e di una diffusa diffidenza verso l’oggetto artistico digitale che perpetuano i tradizionali vincoli ontologici e linguistici con cui si è soliti inquadrarlo e definirlo tale, ma ancor più, al di là della convinzione che l’arte debba essere racchiusa nel gesto creativo dell’artista, nell’artigianalità, nella manualità, nella competenza tangibile e visibile del suo ideatore ed esecutore, ed entro questi confini, essere valutata e classificata.

Ma arriviamo al doveroso chiarimento: l’apprendimento automatico è un sottoinsieme dell’intelligenza artificiale che si occupa di creare sistemi che apprendono o migliorano le performance in base ai dati che utilizzano e alle istruzioni che ricevono; altra cosa, l’intelligenza artificiale con cui designiamo genericamente sistemi o macchine che imitano l’intelligenza umana. In parole povere, una banca, un social network, i siti di vendita online si avvalgono di algoritmi e della tecnologia di Machine Learning, le cui molteplici possibilità di impiego hanno fatto irruzione anche nei processi creativi e artistici contemporanei. Nulla di cui temere, dunque.

L’arte generativa non è un sovvertimento dell’umano, ma una sua estensione creativa, un’esplorazione delle funzionalità digitali che sono entrate di buon diritto nella vita di tutti giorni e il cui utilizzo, in campo artistico, va letto come una forte spinta verso l’emancipazione creativa che non comporta né invoca un atto di degenerazione e rovesciamento dell’archeologia umana.

In un’epoca in cui il linguaggio definisce i confini di cosa è e cosa non è arte (o li abbatte e li stravolge), dobbiamo imparare a guardare alla creatività tecno-umana come un atto squisitamente linguistico, attraverso il quale ricodificare, riassegnare, inventare, riformulare, riprogrammare, indagare e interpretare in modo originale e nuovo, canoni di espressione individuali e collettivi capaci di penetrare il sistema artistico e culturale di riferimento. Senza dimenticare che tutta la storia dell’arte è attraversata dalla dialettica fra un’estetica imitativa, classicistica, reazionaria, e un’estetica pronta a ridiscutere e rovesciare i canoni, le regole, l’idea stessa di perfezione e bellezza artistica. Ma soprattutto, senza ignorare come la nostra identità digitale è già tempo presente, che creare una biografia dell’umanità attuale e aggiornata deve inevitabilmente passare per queste forme espressive che già sono parte del nostro tessuto culturale e che ignorarle significherebbe sacrificare e censurare un’espressività spontanea e naturale che appartiene al presente.

È in queste mutazioni epocali, in queste oscillazioni tra passato e futuro che investono l’uomo e il suo innato bisogno di indagare la realtà, che Quayola.Re-coding, prima monografica di Davide Quayola a Roma, ospitata dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presieduta da Emmanuele F. M. Emanuele, e curata da Jérôme Neutres e Valentino Catricalà, con opere realizzate tra il 2007 e il 2021, si inserisce, invocando un criterio di metodo, di osservazione, di classificazione e di valutazione dell’arte contemporanea che sia al passo con l’uomo e il suo rinnovamento espressivo, e nel quale inserire la relazione uomo-algoritmo nei termini più appropriati alla nostra contemporaneità, vale a dire, in un totale equilibrio collaborativo e di affinità dentro il quale guardare alla tecnologia non come mero strumento, ma come atto fondativo della rappresentazione, e dunque, come opera d’arte di diritto, figurativamente indipendente ed eticamente fruibile.

La rassegna si dipana in tre moduli, tre percorsi espositivi – classico barocco e rinascimentale (Iconografia Classica), la scultura incompiuta (Non-finito), la Natura e il paesaggio (Pittura di Paesaggio) – nei quali è racchiuso il tema principe del lavoro dell’artista: l’automazione come modalità di ricerca e come locus spontaneo di incontro tra la conoscenza, il patrimonio iconografico acquisito e condiviso, l’archeologia umana classica, da una parte, e la sperimentazione artistica che agisce su quello che già esiste, per proporre versioni inedite, dall’altra.

Re-coding suggerisce un possibile codex animato sulla realtà in movimento, in perenne divenire, dalle infinite implicazioni figurative, che coinvolge le cose che ci connotano culturalmente e in natura, per creare conversazioni originali, visioni dialogiche, complesse composizioni digitali, e dunque, una nuova semantica che non disconosce il passato, ma che al contrario ne riconosce l’importanza e lo eleva a Urzeit, origine, primo stadio, Big Bang da cui deriva ciò che siamo e che ci parla.

Tra tecnologia che allude al futuro (anche se è già il presente) e un “rifacimento” delle opere classiche, barocche e rinascimentali, ma anche il senso di indefinito delle sculture, o la variazione giorno–notte dentro i paesaggi digitali, siamo travolti dall’accadimento di un evento mutevole, di una trasformazione continua e inarrestabile nell’osservazione dell’opera, in cui percepiamo simultaneamente il soggetto originale e le infinite combinazioni e astrazioni come fossero narrative distinte e distinguibili, derivate e autentiche.

La mostra di Davide Quayola vive di una tensione eccitante e suggestiva che collocherei proprio dentro il dramma umano dell’inesauribile, nel senso di incompiuto, di fluidità a cui sentiamo di far parte, e di voler contribuire al dialogo inclusivo, inaspettato e travolgente, che il tempo instaura con l’uomo e la sua ricerca artistica computazionale.

Di grande effetto l’audio che accompagna questo crescendo sensazionale, in quello che appare anche un viaggio di formazione di un novello Ulisse che si muove nel tempo portando con sé lo stupore della scoperta.

Paola Milicia

Intervista a Valentino Catricalà

(Paola Milicia): Qual è la sfida nella relazione e nel dialogo tra tecnologia e arte?

(Valentino Catricalà): Il rapporto tra arte e tecnologia non è una sfida di oggi solo ma da molto tempo, da quando gli artisti hanno iniziato, già con le avanguardie storiche dei primi del Novecento, a cercare di comprendere il nuovo sistema mediale nato fra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Gli artisti hanno cercato di comprendere, riflettere e orientare tale sistema attraverso l’inglobamento di media complessi, fino al punto di creare spesso nuove tecnologie per creare le proprie opere. Questa, penso, oggi sia una sfida ancora attuale. Viviamo in un’epoca complessa, dove la tecnologia ha iniziato ad avere un ruolo sempre più dominante. Gli artisti sono come dei sismografi, intuiscono le vibrazioni delle società prima degli altri. Guardare agli artisti è fondamentale, non solo per il mondo dell’arte, ma per la società e la politica.

C’è un tratto che più di altri attraversa l’esposizione ed è la dimensione temporale e la relazione che si instaura con la sua misurazione. Qual è il sentimento dell’artista nei confronti della mutevolezza del tempo in termini artistici? L’arte invecchia, ha una sua stagione passata, una sua giovinezza irrecuperabile per la quale la tecnologia serve come da lifting?

Condivido il senso di temporalità del lavoro di Quayola, non credo però che questa si evidenzi in una forma di nostalgia o di restyling o lifting dell’antico – come poteva essere in alcune esperienze del romanticismo o di altri stili artistici. Nella mostra abbiamo messo i riferimenti delle opere alle quali Quayola si ispira, ma la forza del lavoro sarebbe esistita anche senza il riferimento, anche senza sapere che quell’opera si inspirava a un’opera classica. Tuttavia, ne avremmo comunque colto il suo guardare al passato come forza propulsiva del presente. Questo è evidente soprattutto nella parte dedicata al paesaggio, noi non sappiamo che quelle opere sono state girate ad Aix en Provence, l’ultimo luogo di Van Gogh, eppure ci connettiamo con una immagine digitale che ci dà un senso “impressionista” della natura. Il rapporto con l’elemento naturale, così evidente in molta arte oggi, non è direttamente legato a temi quali antropocene o climate change, Quayola indirettamente tocca questi temi facendo però ritrovare quell’ammirazione, quella meraviglia della natura che ha rappresentato il rapporto con il naturale in epoca classica. Solo così, egli sembra dirci, possiamo riprendere un rapporto con essa e un atteggiamento critico.

Quale è il ruolo dell’artista in questo scenario digitale in cui si guarda con dubbio al rischio di ridurre la sua creatività a una conoscenza tecnica ingegneristica? Mi pare che ci si possa confondere non poco nel distinguere un artista digitale, un creatore di forme e linguaggi poetici e artistici, da chi della tecnologia fa un uso meramente strumentale. Come si riconosce un artista digitale?

Parlare oggi di arte digitale non ha più molto senso. Pensiamoci, fino a poco tempo fa si poteva dire che esisteva un mondo delle new media art (media art, digital art, ecc.) separato da quello dell’arte contemporanea. Possiamo ancora dire questo? Artisti che lavorano con la CGI o con il Machine learning sono dappertutto, fanno mostre in istituzioni quali il MoMA, la Tate, la Serpentine Gallery, ecc. Pittori lavorano con realtà virtuale o aumentata, performer realizzano opere con intelligenza artificiale. Le barriere si sono rotte. Basta guardare al lavoro dei giovani artisti, non hanno più quella distinzione netta tra dove inizia e finisce un medium. È più complicato mettere barriere, oggi. E questo è anche un rischio, cercare di capire chi fa veramente arte e chi invece fa un uso della tecnologia ingegneristico o puramente spettacolare. La tecnologia ci affascina, e spesso ci facciamo trascinare da questo fascino, dal modo in cui si muove e opera. Molti artisti cadono in questo fascino facendosi trascinare più dal suo funzionamento che dalle sue possibilità espressive. Mi è capitato spesso in qualche studio visit di vedere opere banali con una lunga spiegazione sui suoi processi (ho messo un braccio robotico, su una stampante 3D, con un processo di machine learning… “mi stai parlando del processo tecnologico con il quale hai fatto l’opera o dell’opera? Perché se mi parli del processo basta che vado in una industria robotica e vedrò cose molto più spettacolari”). Per questo il compito del curatore oggi è importante…e non facile!

Una curiosità: qual è stato il riscontro di pubblico? E quale l’obiettivo di una mostra innovativa come questa e quelle digitali in genere. Cosa ci si aspetta dal pubblico?

Siamo davvero colpiti dalla reazione della gente, c’è una grande partecipazione. Anche il luogo è singolare, un bellissimo palazzo che per la prima volta si apre a un artista contemporaneo, grazie alla visionarietà del prof. Emmanuele Emanuele che ha fortemente voluto questa mostra. Il pubblico entra in un luogo antico trovando un linguaggio nuovo che si ispira al passato, un cortocircuito temporale che ci porta direttamente in una dimensione futura e unica. Credo che lo scopo sia lo scopo di qualsiasi altra mostra di arte contemporanea, riuscire ad aprirci uno spiraglio sul nostro presente.

QUAYOLA. RE-CODING
fino a Domenica 30 Gennaio 2022

PALAZZO CIPOLLA – FONDAZIONE TERZO PILASTRO INTERNAZIONALE
Via del Corso, 320, 00161 Roma
06 6786209; fondazioneterzopilastrointernazionale.it