Cindy Sherman e le “mise en scène” fotografiche che sfidano le nozioni di genere

di Fabiana Maiorano.

Cindy Sherman e le "mise en scène" fotografiche che sfidano le nozioni di genere

Figlia del concettualismo degli anni ‘70, la fotografa statunitense Cindy Sherman (1954) ha sempre rivolto il suo interesse verso le potenzialità intellettuali del mezzo, esplorando con esso i temi dell’identità e della rappresentazione nel corso della sua carriera, mettendo sempre in scena sé stessa in travestimenti diversi come fosse un’attrice e un tema assai ricorrente nel suo lavoro è quello dell’androginia.

Cindy Sherman nel 2016 Premio Imperiale 2016 Premio Wolf per le arti 2020 (fonte: Wikimedia Commons)

Meritevole erede della Rrose Sélavy duchampiana, l’artista ha vestito i panni di una serie infinita di identità diverse, percorrendo quel progetto di frantumazione del proprio io avviato già con la serie dei Film Stills, dove impersonava le ragazze americane medie, tra stereotipi, femminilità e costrutti sociali.

≪Volevo passare il tempo a pensare l’immagine piuttosto che a produrla≫. 1

È autrice e soggetto dei propri autoritratti, scatti elaborati frutto di un’accurata selezione di costumi, trucco, parrucco e scenografie con protesi talvolta grottesche.

Come accennato poco sopra, l’approccio all’androginia è sempre stato una costante nei suoi lavori, accentuato da un’ambiguità di fondo che sfida le nozioni di genere attraverso suggestive mise en scéne fotografiche.

È il caso, ad esempio, del famoso dittico “Dottore e infermiera” del 1980, dove l’artista si è calata sia nel ruolo del medico fiducioso e sorridente che in quello dell’infermiera composta. Questi ritratti incarnano gli archetipi professionali e lavorativi che venivano utilizzati a scopi commerciali dalle istituzioni pubbliche per l’identificazione del personale della metà del secolo. Con i suoi travestimenti la Sherman ha in qualche modo offuscato quegli stereotipi.

Cindy Sherman, Untitled #93, 1981. Astrup Fearnley Collection, Oslo. Courtesy of the artist & Metro Pictures, New York – “The Cindy Sherman Effect”, Kunstforum, Vienna

È la stessa ambizione del progetto “History Portraits” (1988-1990), nel quale interpretò varie figure storiche, come ad esempio Madame de Pompadour, tra aristocrazia e mondo ecclesiastico, sottolineando con cupi artifici la natura costruita del genere nel corso della storia.

Sempre verso la metà e la fine degli anni ‘80 la Sherman ha iniziato a sviluppare un linguaggio visivo che esplorava (e lo fa tutt’oggi) gli aspetti più grotteschi dell’essere umano attraverso una visione orrorifica e spregevole, grazie anche all’introduzione di protesi e manichini inquietanti. È il caso di lavori come “Fairy Tales” (1985), “Disasters” (1986-89) e “Sex Pictures” (1992).

Questo linguaggio le ha permesso di affrontare dagli inizi degli anni ‘90 la questione sulla diversa e non omologabile natura dei comportamenti sessuali. Manichini per le esercitazioni anatomiche, bambole e volti di gomma diventano gli alter ego dell’artista, i protagonisti di scenari ripugnanti al limite del paradossale.

Cindy Sherman, Untitled Film Still #2, 1977. Kunstmuseum Wolfsburg. Courtesy of the artist & Metro Pictures, New York – “The Cindy Sherman Effect”, Kunstforum, Vienna

Per la prima volta Cindy Sherman si è posta unicamente dietro la fotocamera, a favore di un’aberrante teatralità degli stereotipi del comportamento, quelli derivanti da una sessualità sempre più inorganica 2, modelli che sottolineano, in maniera ancora più marcata, l’intenzione della Sherman di «riprodurre oggetti che sono già riproduzioni» 3 così come del resto accadeva per le attricette mimate nel ciclo dei Film Stills. 4

Certamente non è rimasta impassibile alle nuove tecnologie digitali e col tempo l’artista ha adottato un’esplorazione più astratta dell’androginia. Vestiti con abiti oversize (come nella serie “Clown” del 2003, nella quale ha indagato anche la disparità tra la personalità interiore ed esteriore del personaggio), apparentemente senza genere e dipinti con colori tenui (es. “Society Portraits” del 2008 o “Flappers” del 2016), i suoi personaggi occupano una scena manipolata digitalmente, creando un senso di mistero e sfidando banali categorizzazioni.

Negli ultimi anni l’artista ha iniziato ad utilizzare il suo profilo Instagram per sfoggiare tutta una serie di ritratti e videoritratti i cui volti sono manipolati tramite app, proponendo personaggi inquietanti e caleidoscopici, immersi in ambientazioni distopiche; sono immagini disturbanti, che evidenziano la fratturazione dell’essere umano nell’epoca moderna. Utilizzando l’autoritratto e alterando il suo aspetto, oggi come allora Sherman costringe gli spettatori a mettere in discussione la definizione di identità, di genere e le aspettative sociali ad esso collegate.

Questo approfondimento chiude la mostra “Gender Fluid. L’arte sfida i binarismi di genere”, affinché il dibattito sulla scena artistica sia sempre aperto e incoraggi, come ha fatto Cindy Sherman per tutta la sua carriera, ad andare oltre le classificazioni binarie e ad abbracciare la fluidità dell’identità.
Fabiana Maiorano

Riferimenti e contatti
Instagram
Immagine in evidenza
Cindy Sherman, Untitled Film Still #58, 1980. Kunstmuseum Wolfsburg. Courtesy of the artist & Metro Pictures, New York – “The Cindy Sherman Effect”, Kunstforum, Vienna (part.)
Copyright
Tutte le immagini © Cindy Sherman

Note

  1. C.Christov-Bakargiev, Cindy Sherman, in “Flash Art”, n.145, 1988, p.75
  2. “Il top del sex appeal dell’inorganico nelle cosiddette arti figurative mi sembra per il momento raggiunto dall’americana Cindy Sherman”. M.Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, p.135.
  3. R.Krauss, Teoria e storia della fotografia [1990] ,trad.it Bruno Mondadori, Milano 1996, p.226.
  4. C.Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia senza combattimento, Bruno Mondadori, Milano 1999, p.218,