I chiaroscuri fotografici dal sentore pittorico. Intervista a Federico Ferro

di Fabiana Maiorano.

Trovo che le fotografie di Federico Ferro siano di una bellezza rara, di un fascino mistico avvolto in un realismo magico che solo pochi artisti riescono a rendere così bene in fotografia. Complice la plasticità dei corpi dei modelli e le composizioni magistralmente eseguite, l’occhio di Ferro ritrae queste affollate visioni che spesso ricalcano le trame di una mitologia antica combinata a riferimenti artistici che solcano le orme dei grandi artisti Michelangelo, Caravaggio, Goya, Blake, Cabanel, Romano… tutti scrupolosamente studiati per piegare le loro tecniche alla resa fotografica.
Osservando i suoi lavori fa quasi sorridere che agli inizi della sua carriera abbia prediletto i paesaggi alle figure umane che solo in seguito ad un complesso lavoro su sé stesso ha incluso nei suoi scatti, ritagliando per loro scenografie spettacolari.
Pensieri e figure conquistano lo spazio in una ricercata dicotomia luce/ombra che avvolge scenari suggestivi aperti all’interpretazione di ognuno. É lì che prenderanno vita le opere di Federico Ferro: negli occhi di chi le osserva, di chi viene avvolto emotivamente dal surrealismo prepotente delle scene e viene scaraventato nei turbamenti personali di un uomo contemporaneo.

L’intervista

[Fabiana Maiorano]: Come ti sei avvicinato alla fotografia e come ti sei proiettato verso questo stile dal sentore fortemente pittorico?

[Federico Ferro]: L’avvicinamento alla fotografia penso sia avvenuto attorno ai vent’anni. Confesso che inizialmente i miei scatti erano privi di figure umane: prediligevo i paesaggi, i contesti urbani e, paradossalmente ai miei lavori attuali, mi infastidiva la gente nelle fotografie. Nel tempo ho seguito diversi corsi, laboratori e workshop sull’autoritratto, e forse in quel momento c’è stato un graduale cambio di rotta: lavorando molto su me stesso in un periodo in cui non mi piacevo affatto, ho fatto molta pratica e a poco a poco mi sono reso conto dalle potenzialità delle persone come soggetti, non più come disturbi delle foto. Sono uscito dalla mia zona di comfort e ho provato cose nuove, raggiungendo una maturità artistica e sperimentando questo particolare stile fotografico molto vicino al linguaggio pittorico. Mi hanno stimolato molto gli affreschi a Palazzo Te di Giulio Romano; ho immaginato come sarebbe stato realizzare un lavoro che si avvicinasse un minimo al suo, con i mezzi odierni. Benché – ovviamente – non avessi la sua mano, quella che mi sono posto è stata una sfida personale giocata sul digitale. Inutile dire che non si può raggiungere la maestria dell’allievo di Raffaello, ma ho scoperto che la mia tecnica poteva imbrogliare l’occhio. “Lucifero” penso sia il progetto riuscito meglio da questo punto di vista, perché sembra un quadro a tutti gli effetti. Tra l’altro la foto è diventata virale su internet e la gente erroneamente mi individua come pittore…

Non solo Romano, le ispirazioni per le tue opere vengono da altri grandi artisti, come nel caso di “Lucifero”…

Il mio Lucifero è ispirato a quello di Alexandre Cabanel. Oltre a lui, nei miei scatti c’è tanto realismo scenico caravaggesco, i tenebrismi di Goya, la plasticità anatomica di Michelangelo, il surrealismo di Bosch… Diciamo che mi rifaccio volentieri al fascino antico, perché penso che molta fotografia la si possa ritrovare – e quindi proporre – nelle tecniche di questi mostri sacri, come ad esempio la posizione delle luci.

Cosa vogliono trasmettere le tue fotografie?

É una domanda un po’ difficile perché quando ho iniziato a fare fotografia non lo facevo in prospettiva degli altri, ma più per me stesso, per un accrescimento personale. Il fatto di averle rese pubbliche è successivo. Mi sono interessato molto a mitologie e religioni nelle loro sfumature più cupe, e la loro ripresa nei miei scatti con toni sinistri è un riflesso di quello che ho dentro e che cerco di esorcizzare. A seguito di alcuni lutti mi sono trovato a non riuscire a raccontare la morte, quindi il fare fotografia per me è una ricerca costante del suo significato. Dopotutto l’uomo ha sempre affrontato il tema della mortalità per spiegare la vita, forse è quello che faccio anche io.

Il fatto che comunque le tue foto piacciano può significare che anche altri hanno bisogno di esorcizzare dei malesseri e si riflettono nelle tue fotografie personalizzando la lettura, andando magari oltre il valore che avevi pensato inizialmente per loro…

É quello che mi auguro a priori perché l’opera nasce nel momento in cui ha un osservatore.

Che tipo di legame instauri coi soggetti per raggiungere quel pathos classico che raramente si trova in fotografia?

Ho avuto la fortuna di aver trovato dei ragazzi e ragazze meravigliosi, che non mi hanno mai chiesto nulla e a cui devo tutto. Ci sono persone estremamente sensibili al mio lavoro e il tutto avviene in maniera quasi spontanea quando si mettono in posa. Cambiano completamente, vestono i personaggi e sono dei professionisti pazzeschi. Grazie a loro ho scoperto il valore dell’arte e gli ho promesso una mostra con gli scatti della serie “Inferno”. Gliela devo.

© Federico Ferro – Lucifero

C’è un progetto al quale sei particolarmente legato?

Tecnicamente sono molto legato a tutti i miei progetti, ma quello che mi ha permesso di crescere come figura artistica è “Lucifero”. E’ uno dei lavori meglio riusciti perché è un simbolo abbastanza forte nel suo dualismo di portatore di luce e di male assoluto, sconfinato all’inferno. Nell’interpretazione che gli ho dato, con la complicità plastica del modello, Lucifero è in un limbo tra luce e tenebre.
Per citarne un altro, mi piace molto “Cupido”, un lavoro enigmatico che inganna la percezione dello spettatore. Cupido è la freccia o la figura trafitta da essa? Non lo svelerò mai!

© Federico Ferro – Lilith

Quando la si iniziò a concepire come mezzo artistico, la fotografia non fu ben vista dai pittori e ora molti fotografi guardano con diffidenza le opere di “Generative Art”. Che ne pensi di queste nuove tecnologie?

Beh, l’effetto fotografico viene un po’ snaturato. Ti faccio un esempio molto pratico: se io fossi un pilota, ma la macchina ha la guida automatica, chi vince la gara? Io o la macchina?
Sono molto favorevole allo strumento che può aiutare; il pennello e la tela stanno al pittore, così la macchina sta al fotografo. Sono contrario a tutto quello che non viene creato da una persona. Ho visto delle cose molto belle create dall’intelligenza artificiale, ma non nascono dal nulla, si riferiscono sempre ad un database di immagini già esistenti, quindi ricopia ciò che un uomo ha creato. Secondo me l’AI è uno strumento elettrizzante per la possibilità di poter creare qualcosa in un lampo, ma la riconoscerei valida per me se posso lavorare su qualcosa creato da me. Nel mio caso, ad esempio, me ne servo in post produzione quando utilizzo un’editor grafico che ha dei tools di base che permettono di creare determinati filtri, effetti di luce o quant’altro.
Quello che non mi piace è paragonarla ad opere di artisti, non permetterei ad opere Generative Art di partecipare a concorsi perché secondo me svalutano in maniera ridicola il lavoro di un pittore, uno scultore, un fotografo… Penso che per definire qualcosa come artistico ci debba essere un processo evolutivo di un artista che punta a rendere reale tutto ciò che ha in testa. Per me, quindi, l’opera d’arte è qualcosa che esce dalla mano di una persona e sento che alle Generative Art manca proprio questo approccio umano.

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Crediti
Tutte le immagini © Federico Ferro
Immagine in evidenza: Federico Ferro – Il Rituale