Gender Fluid

“La creatività è una forma di resilienza”. Intervista a Fiona Annis

di Teresa Lanna.

"La creatività è una forma di resilienza". Intervista a Fiona Annis

Guardare “oltre” l’immagine; analizzare ogni dettaglio del mezzo adoperato per catturare il momento presente, fornendo nuovi ed originali spunti interpretativi, che daranno vita, a loro volta, a riflessioni e chiavi di lettura sempre nuove.

C’è questo e molto altro nell’opera dell’artista canadese Fiona Annis, che pone al centro della sua attività un’attenta esplorazione della natura enigmatica e misteriosa della fotografia. La sua pratica non è limitata a una singola tecnologia, metodo, processo o soggetto, ma indaga gli elementi fondamentali della fotografia, quali luce, carta, chimica e tempo. Ad una profonda conoscenza di materiali e processi fotografici arcaici, l’artista canadese affianca un approccio profondamente contemporaneo.
Fiona Annis ha esposto in istituzioni artistiche mondiali, tra cui AC Institute (New York), Canadian Centre for Architecture (Montréal), Goldsmith’s (Londra), Low Salt Gallery (Glasgow), Museo Novecento (Napoli), Gallery44 (Toronto), e The Art Gallery of Alberta (Edmonton). Le sue opere sono presenti nella collezione permanente del Museo della Civiltà di Québec, nel Museo Nazionale di Belle Arti del Québec, nella collezione di arte pubblica di Ottawa e della Penumbra Foundation di New York. Nel 2018-19, Annis ha beneficiato del premio della Fondazione Brucebo per la sua residenza presso il Museo degli Strumenti Astronomici di Napoli, Italia. Fiona Annis è una delle due co-fondatrici di The Society of Affective Archives (La società degli archivi affettivi), con progetti che includono la creazione di mostre e opere d’arte pubbliche permanenti.

Abbiamo intervistato Fiona Annis, ponendole alcune domande sul suo percorso professionale, in occasione dell’esposizione del suo progetto fotografico “It Slips and Falls and is Reborn“, presentato in anteprima all’ultima edizione di Artefiera Bologna e, successivamente, all’interno degli spazi di Gallerie Riunite, a Napoli.
It Slips and Falls and is Reborn è una meditazione sulla fragilità e la resilienza della vita e presenta una selezione di opere che esplorano i temi della catastrofe, del desiderio e della speranza radicale. Si tratta del capitolo più recente del suo progetto, A Portion of That Which Was Once Everything, concepito nel 2018 e tuttora in corso. Esso include fotografie, sculture, opere d’arte testuali e artefatti d’archivio, ed è sviluppato attraverso residenze di ricerca, collaborazioni con autori e mentorship intergenerazionali. Capitoli del progetto sono stati presentati in vari contesti, tra cui: installazioni all’aperto (Rencontres internationales de la photographie en Gaspésie), mostre in galleria (Campbell River Art Gallery), in dialogo con collezioni museali permanenti (Museo Novecento, Napoli) ed eventi di creazione artistica in collaborazione con il pubblico (Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, Roma).

[Teresa Lanna]: Lei usa la macchina fotografica in maniera non convenzionale; ci spiega com’è cambiato l’uso del “mezzo” nel corso del tempo?

[Fiona Annis]: Ciò che è rimasto costante nella mia pratica, col passare degli anni, è un approccio in cui imparo e sperimento continuamente con vari metodi e materiali. Spesso sono guidata da idee in fase di elaborazione e cerco di trovare un’espressione materiale a questi concetti; il che mi porta a lavorare seguendo processi sempre diversi. Forse ciò che è cambiato, rispetto agli inizi della mia attività, è che, contestualmente all’esplorazione di un concetto, sono diventata più sensibile ai materiali e ai processi stessi. Man mano, la mia pratica sta divenendo meno l’esecuzione di un concetto e più una conversazione e un dialogo con i tanti elementi che partecipano ad un processo creativo.

It Slips and Falls and is Reborn è una meditazione sulla fragilità e la resilienza della vita. In che modo ha rappresentato questi concetti nelle sue opere?

L’esplorazione della fragilità e della resilienza si è radicata nella serie Dis-astro, che è un’indagine volta a dare espressione materiale alla natura contemporaneamente catastrofica e creativa del disastro, che letteralmente significa “perdere le stelle”. Le immagini raccontano una storia di fratture e cicatrici e rivelano anche nuove topografie. Agendo come una metafora dello sconvolgimento e della rinascita personale e collettiva, la serie è una meditazione sul potenziale del disastro come un impulso a ritrovare i punti di riferimento perduti.

Le sue creazioni esprimono i temi della catastrofe, del desiderio e della speranza radicale. Quale tra questi elementi, secondo lei, è maggiormente presente nella società contemporanea?

In questo momento c’è molta destabilizzazione e incertezza nel mondo. Politicamente, economicamente, ecologicamente, il futuro è messo ogni giorno in discussione e ci rendiamo conto di come tale situazione favorisca un terreno fertile alle diverse forme difensive-aggressive di sorveglianza, controllo e giochi di potere che, così, prendono sempre più piede. Al contempo, questo stato di incertezza può anche sollecitare l’immaginazione, la creatività e l’ingegno; può essere un’opportunità per riflettere su nuovi modi di essere. Vedo l’immaginazione, infatti, come una forma di resistenza e di resilienza. Penso alla resistenza non come a un pugno di ferro, ma, piuttosto, come a un ritorno alle radici etimologiche della parola: un modo per esistere di nuovo. In quest’ottica, parlo di speranza radicale: non come una fede nel fatto che tutto va o andrà bene, ma piuttosto come un modo di affrontare l’ignoto, e anche un modo per ricordare che le nostre azioni, sia piccole che grandiose, hanno una risonanza.

Napoli è la città delle contraddizioni e degli opposti che imparano a convivere insieme; quando vi è stata per la prima volta e quali sono le caratteristiche, i luoghi, le cose, che maggiormente l’hanno colpita del capoluogo partenopeo?

Sono venuta a Napoli per la prima volta nel 2016, per incontrare il direttore dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte. Oltre alla ricerca astronomica attuale, l’Osservatorio possiede un museo di strumenti astronomici storici con cui ero curiosa di lavorare. Ho chiesto se l’Istituzione avesse preso in considerazione la possibilità di ospitarmi come artista in residenza. Un anno dopo questo primo incontro, sono tornata per iniziare a lavorare con il sostegno della Fondazione Brucebo.
L’esperienza vissuta a Napoli in quel periodo ha avuto un forte impatto sulla mia attività, e da allora cerco di tornarci il più spesso possibile. Ci sarebbe molto da dire su ciò che mi affascina del capoluogo campano, ma, considerando gli spazi giornalistici da rispettare, sarò breve e dirò che il ritmo e la pulsazione della città sono le due cose che mi hanno maggiormente colpito. Così come la ricchezza che la città ha ereditato dall’arte concettuale e dall’arte povera, due movimenti da cui ho ancora molto da imparare. È difficile esprimere a parole quanto sia speciale lo scenario culturale attuale di Napoli; per esempio, nelle stazioni della metropolitana ci sono le opere di Shirin Neshat, William Kentridge e Jannis Kounellis, solo per citarne alcuni; per non parlare di quella che considero una cultura contemporanea davvero forte, impegnata e curiosa.

Le sue immagini sono prevalentemente sfocate, immerse in una sorta di mistero. Qual è, a suo avviso, la soluzione per vedere le cose con maggiore chiarezza?

Le immagini presentate in questa mostra sono principalmente astratte. Considero l’astrazione come un mezzo per andare al centro di un’idea, di un evento o di un’esperienza, nel senso che l’astrazione è svincolata da un particolare insieme di punti di riferimento, ad esempio i dettagli di un particolare tempo o luogo. Eliminando il rumore, il mio intento è fare in modo che il lavoro possa toccare un nucleo centrale. In inglese, direi che l’astrazione può arrivare al “midollo” della cosa. Non sono sicura che questa sia un’espressione valida anche nella lingua italiana, ma credo esprima il concetto. Il mio lavoro non è esclusivamente astratto, ma è qualcosa che ero curiosa di esplorare in questo nuovo capitolo.

It Slips and Falls and is Reborn è il capitolo più recente del suo progetto, A Portion of That Which Was Once Everything, che è tuttora in corso. Ha già in mente i capitoli successivi e i luoghi in cui verranno presentati?

Sì, attualmente sto lavorando alla realizzazione dei capitoli futuri. Oltre ad un nuovo studio fotografico, sto anche sviluppando una sceneggiatura per proiettori multipli di diapositive, utilizzando i proiettori quasi come attori in una rappresentazione teatrale. Negli ultimi due anni ho presentato diverse mostre e non vedo l’ora che arrivi un periodo di creazione mirata in studio quest’inverno.

La luce è parte integrante delle tue opere; quanto conta per te la spiritualità?

Questa domanda mi fa venire in mente una conversazione che ho avuto di recente con una filosofa iraniana, la quale mi ha descritto come, dal suo punto di vista, l’arte non riguardi tanto una cosa fatta, ma piuttosto l’esperienza di essere immersi in un flusso particolare. Quest’idea è in linea con il mio pensiero, poiché sono spesso curiosa di scoprire tecniche di immersione, di ascolto profondo; di sintonizzazione, per così dire. Penso a queste pratiche, e a coltivarle, come parte di un processo creativo continuo, che probabilmente si sovrappone a ciò che potrebbe essere definito spirituale.

Tu sei una delle due co-fondatrici di The Society of Affective Archives (La società degli archivi affettivi); di cosa si occupa e quali sono i progetti ivi promossi?

The Society of Affective Archives è stata co-fondata da me e dalla mia collega artista Véronique La Perrière M, più di dieci anni fa. Quando abbiamo iniziato, i nostri progetti erano completamente sperimentali e underground. Questo modo di lavorare ha favorito una base creativa davvero solida, nata dallo scambio e dal dialogo costruttivo. Nel corso del tempo, la nostra attenzione si è catalizzata anche all’esterno e siamo passate dalla creazione, ad esempio, di performance intime site-specific alla creazione di opere d’arte pubbliche permanenti su larga scala. I materiali con cui lavoriamo sono diversi; dal bronzo al video ad alta definizione, ma ciò che persiste nel nostro lavoro è un intramontabile affetto per il fatto a mano, un profondo impegno nel collaborare tra noi e una sensibilità per le storie dei vari luoghi.