La Palestina è donna. La libertà è donna. Intervista a Nidaa Badwan, fotografa della striscia di Gaza

di Mariateresa Zagone.

La Palestina è donna. La libertà è donna. Intervista a Nidaa Badwan, fotografa della striscia di Gaza

L’arte è spesso, o può esserlo, catarsi. Così è stato per l’artista palestinese Nidaa Badwan che non da spazio alle parole di ciò che le è accaduto lasciando che siano i suoi scatti a comunicare la narrazione di una iniziale e volontaria “autoreclusione” di protesta trasformata in uno spazio intimo di ricarica e di ricarica. L’ incrocio della sua storia personale con la geopolitica di uno dei luoghi più martoriati degli ultimi settant’anni, la trasmutazione delle ingiusizie in opere d’arte fotografica, il racconto che urla l’esigenza di libertà e di diritti per le donne, lo scavo interiore volto a ritrovare la forza del femminile umiliata e offesa, volto a ritrovarSI, questo sono i fotogrammi coloratissimi e pausati di Nidaa Badwan.

Le vicissitudini contingenti di Nidaa Badwan sono state simili a quelle di Masha Amini, la ragazza iraniana uccisa per aver indossato male il velo e che ha dato il via alle rivolte popolari in Iran dello scorso anno. La reclusione, le torture, la violenza, la protesta e il bisogno di trasformare queste ferite in colore, in forza, in immagini.

La vicenda e gli scatti che raccontano i suoi “Cento giorni di solitudine” l’hanno portata in prima pagina sul New York Times e nelle maggiori gallerie e musei del mondo. A questo sono seguiti progetti di omaggio alla cultura italiana con la “Divina Commedia” e la “Commedia dell’Arte”, e progetti introspettivi e psicologici come “Oscure notti dell’anima”.

Ogni scatto è una storia senza azione, un fermo immagine che indugia con diletto sulla composizione risultante da una luce teatrale che caccia nel buio il non necessario. Negli scatti di “Cento giorni di Solitudine” arriviamo a sentire l’odore delle cipolle, a sentire la trama degli abiti indossati dall’artista o quelle dei tappeti e delle coperte; la quotidianità viene orchestrata in composizioni mute animate dal sole che penetra nel piccolo ambiente di tre metri per tre a Gaza. Tutto vibra di vita eppure è fermo, tutto è muto ma ci costringe ad ascoltare ciò che abbiamo dentro, non sono scene memorabili ma pezzi di vita fotografati con una splendida spontaneità calcolata.

L’intervista

[Mariateresa Zagone] Chi è Nidaa Badwan?

[Nidaa Badwan] Un’artista palestinese nata negli Emirati ed attualmente residente in Italia.

Qual è stata la tua formazione e quando hai deciso che l’arte sarebbe stata la tua professione?

Ho studiato la vita tramite l’arte e l’arte attraverso la vita. Mi sono formata all’Accademia delle belle arti di Gaza ma il mio bagaglio culturale credo di averlo acquisito attraverso lo studio delle emozioni, delle persone incontrate e dei viaggi interiori da me compiuti.

Sei nataad Abu Dhabi ma ti sei trasferita nella Striscia di Gaza da bambina, cosa ti hanno lasciato gli Emirati?

Sicuramente le radici ed un po’ di nostalgia ma quest’ultima è un sentimento che non trova origine nel dolore bensì nella costante ricerca di un ritorno nel viaggio… come un novello Odisseo, sono alla costante ricerca della mia Itaca.

Cosa significa essere giovani palestinesi in una “patria” occupata militarmente?

Significa una sola cosa, bramare costantemente la pace e l’armonia fra i popoli, una pace che è sconfessata dalla realtà dei fatti ma che, giorno dopo giorno, si cerca di conquistare nel proprio animo.

E cosa significa essere giovane donna in una “patria” dove, nel tempo, Hamas è diventato sempre più forte?

Come artista, preferisco non occuparmi di politica, credendo fermamente che l’arte travalichi ogni frontiera, qualsiasi muro ed ogni dogana. Posso invece affermare che il femminino si configura come un grande “utero” che si dilania tanto più la terra viene martoriata da guerre e diaspore.

In una intervista hai paragonato Gaza a Macondo, la città immaginata da Garcia Marquez in «Cent’anni di solitudine». In che modo si assomigliano, questi due luoghi?

A mio avviso sono accomunate da una realtà distopica ed isolate dal mondo quale altrimenti dovrebbe essere. Unica differenza, sostanziale, è che Gaza è una città che pulsa di un dolore che non conosce tregua da troppi anni.

Nel 2013 ti sei autoreclusa per 18 mesi in una stanza 3 metri per 3 per denunciare la condizione delle donne in quei territori. C’era già l’idea di lavorare a un progetto fotografica o no?

La mia stanza è stata un rifugio per lenire ferite non rimarginabili, quasi un santuario per la mia anima dolente, una nicchia dove scoprire in pace il mio io interiore. In principio non avevo altra intenzione ma, dopo i primi cento giorni di reclusione, si è accesa la voglia di esprimere le mie idee per il tramite di foto che rappresentassero delle narrazioni del mio vissuto.

Cosa vuoi che all’osservatore rimanga impresso delle tue foto?

L’emozione ed il colore. Il contrasto tra le ombre e le luci che sono la metafora di ogni esistenza. Il mio intento è quello di curare me e gli altri attraverso le immagini.

Questa tua azione di protesta disperata rispetto a ciò che allora ti è apparsa come un’insormontabile avversità si è trasformata in un percorso di liberazione interiore, ce ne parli?

Sì, è stato indubbiamente un percorso di liberazione interiore, alla ricerca costante del “nirvana”, una condizione di estatico godimento dello spirito.

Si può dire che l’arte, ancora una volta, sia stata fine e mezzo, elemento catartico?

L’arte, essendo espressione della profondità di pensiero è rifugio e catarsi al contempo. E’ terapia che ci permette di sconfessare le atrocità di una vita essenzialmente vocata all’individualismo.

Cosa vuol dire essere un artista e soprattutto un’artista donna oggi?

Essere un’artista comporta delle responsabilità, questo vale a dispetto di ogni genere. Essere un’artista donna comporta affidarsi alla maieutica femminile, alla genesi di nuove possibilità di esistere.

Quali sono le differenze fondamentali fra l’essere artisti in Palestina e in Italia?

Essere artisti prescinde dal luogo di esecuzione. Come detto l’arte rifiuta ogni frontiera, è libertà che nasce da dentro, a prescindere da ciò che si scatena nel mondo reale.

Oltre al fortunato progetto “Cento giorni di solitudine” ci sono stati altri progetti. Ci parli di “What Angel Are You?”

Il progetto delle “Oscure notti dell’anima” ha una lunga gestazione. Partendo dai miei trascorsi, trae origine dall’esperienza della perdita, la perdita dell’Eden, di una giovinezza mai vissuta, la perdita della libertà di esprimermi attraverso i miei talenti artistici ed ancor di più la perdita di un carissimo amico, mia anima gemella nella ricerca della verità. Da qui cominciano delle riflessioni profonde sul senso della vita e, come un angelo caduto e ribelle di liciniana memoria, ho incominciato un viaggio nei meandri della mia anima sconfessando le certezze di un ego oramai insufficiente a fornire risposte nel campo della conoscenza immateriale.

Una domanda di rito, quali sono i tuoi prossimi progetti?

Tanti, troppi per parlarne in poche righe. A titolo meramente esemplificativo, sto lavorando ad un ciclo video-fotografico sulla Rinascita.

Riferimenti e contatti
badwan.management@gmail.; robi.capponi@libero.it; manager Roberto Capponi: 347 1554961.

Nidaa Badwan, artista palestinese nata ad Aba Dhabi nel 1987, cresciuta a Deir Al-Balah, nel sud della Striscia di Gaza, è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale dal 2016, quando alcuni dei maggiori quotidiani europei e americani (tra i quali il New York Times e Corriere della Sera) si sono occupati delle opere da lei realizzate all’interno del progetto artistico: “Cento giorni di solitudine”. Una serie di autoritratti che l’artista ha scattato con la propria macchina fotografica dentro una piccola e colorata stanza da letto, dove la giovane si è rinchiusa volontariamente per oltre 20 mesi, a partire dal novembre del 2013, in seguito all’aggressione subita da parte di alcuni miliziani di Hamas che l’avevano fermata per strada, durante la preparazione di una mostra, contestandole il mancato uso del velo. Un esilio volontario dalla propria comunità vissuto allo scopo di denunciare la condizione di isolamento e di mancanza di libertà che caratterizzano la vita quotidiana della popolazione, in particolare di quella femminile, all’interno di un territorio fortemente militarizzato, dove l’esercizio dei propri diritti individuali diventa una sfida che si rinnova ogni giorno.
Dopo gli anni della Palestina si è trasferita nella Repubblica di San Marino, dove ha svolto anche il lavoro di docente universitaria presso l’Università del Design della Repubblica di San Marino. Ora, l’artista vive in Italia. Le sue mostre hanno girato e stanno girando il mondo: dopo la prima a Gerusalemme, numerose mostre in Italia, Danimarca, Germania, U.S.A., Spagna, Emirati Arabi
Nel 2016 è stata selezionata per il The 2016 Sovereign Middle East & North Africa Art Prize Finalists, un premio ai 30 migliori artisti del mondo arabo, Nel 2017 è stata relatrice al convegno dell’UNESCO, svoltosi a Cartagine (Tunisia). Sempre nel 2017 il Comune di Monte Grimano Terme (Pesaro-Urbino) ha concesso uno spazio nel proprio centro storico come “nuova stanza” di Nidaa. L’inaugurazione è avvenuta alla presenza di numerose autorità, tra le quali il Console di Palestina in Italia.