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Una linea di terra che traduce l’emotività umana. Intervista a Gianni Lucchesi

di Fabiana Maiorano.

Una linea di terra che traduce l'emotività umana. Intervista a Gianni Lucchesi

C’è una sottile linea di terra che mostra metaforicamente le radici della nostra esistenza, la nostra storia, quello che siamo dentro: attorno questa allegoria ruota il lavoro di Gianni Lucchesi, pittore e scultore che ricerca nelle sue composizioni la relazione tra il sé interiore e l’esterno, il corpo, il mondo circostante.

Da ragazzino elabora graficamente le storie, si nutre d’informale e passa poi al figurativo per tradurre visivamente l’emotività umana, e lo fa attraverso le relazioni che si innescano tra i suoi omini in bronzo e l’ambiente che li circonda. Alcuni di essi sono in cima ad un dirupo e scrutano l’abisso, altri si siedono sul ciglio e contemplano l’orizzonte, altri ancora si avvicinano al baratro con titubanza… sono soli sul cuor della terra, direbbe Quasimodo, soli con le loro introspezioni, a tu per tu con le proprie radici esistenziali. Poetiche, certi versi ermetiche, le sue opere giocano sul dualismo dentro\fuori – sotto\sopra con i personaggi in giacca e cravatta posti al limite del loro rapporto con le costruzioni in ferro, cemento o marmo.

Nonostante l’utilizzo di materiali “aggressivi”, Lucchesi allieta lo sguardo con una leggerezza di fondo nelle sue composizioni, dove spesso predominano dei contrasti, elementi che se letti unitamente alle questioni filosofiche-esistenziali e talvolta a calcoli matematici, concorrono nella realizzazione di opere che invitano lo spettatore ad indagare su sé stesso e l’ambiente circostante.

Gianni Lucchesi – Houston, che sfortuna

L’intervista

[Fabiana Maiorano]: Ho conosciuto i tuoi lavori in occasione di una tua recente mostra allestita a Genova negli spazi della Galleria Studio Rossetti, un evento che ha condensato un po’ le ricerche che svolgi nell’ambito dell’umano raccolte sotto il titolo “Houston, che sfortuna”, ispirato al verso di una canzone di Lucio Corsi. Cosa ti ha stimolato di quelle parole?

Gianni Lucchesi

[Gianni Lucchesi]: La canzone di Corsi recita “Houston che sfortuna, siamo arrivati tardi c’è una lepre sulla luna…” e quando l’ho ascoltata mi si è accesa come una lampadina perché si coniuga perfettamente con il lavoro che porto avanti da qualche anno relativo alla psicologia e all’emotività dell’uomo in rapporto a ciò che lo circonda. Inevitabilmente mi sono fermato a riflettere sulle problematiche legate all’ambiente e sulla modalità curiosa che ha l’uomo nell’affrontare i problemi: non ne ha percezione, li elabora, li teorizza, però poi quando questi sono troppo grandi ognuno reagisce a suo modo, oppure per autodifesa tende a non guardarli; penso ad esempio alla reazione che ebbero i musicisti mentre il Titanic affondava…
Probabilmente Corsi ha usato il termine “sfortuna” per far rima con “luna”, ma per me ha un significato importante se penso alle mie opere che riflettono sulla condizione umana immersa in questo mondo fantastico dove una lepre arriva con un balzo irrazionale sulla luna prima di noi. Pensare che noi abbiamo speso il nostro sapere e le nostre conoscenze tecnologiche per raggiungere un obiettivo che una lepre ha ottenuto prima di noi con naturalezza, mi ha ispirato tantissimo. L’idea di fare un progetto su questa visione fiabesca, quasi poetica, della lepre che in un certo senso predomina sull’uomo è partita da quella “sfortuna” cantata da Corsi.

Com’è iniziato il tuo percorso artistico?

Quando ero ragazzino la professoressa di italiano dopo la lettura e l’analisi del testo ci chiedeva di fare uno schema grafico della narrazione e quell’esercizio di raccontare la storia con forme e colori mi stimolava tantissimo, mi divertiva. Ho continuato ad usare quella modalità di racconto per anni, avevo un diario dove appuntavo con i grafici quello che mi accadeva, poi col tempo ho iniziato a studiare i codici visivi, i simboli e ho scoperto un intero mondo legato alle allegorie e ad altre forme di elaborazione visiva. Ho fatto tanti ritratti, poi ad un certo punto mi sono trovato dinanzi al problema di dover raccontare questioni legate all’emotività, dunque un qualcosa che non ha né forma né colore ed è allora che ho iniziato a giocare sul dualismo sopra\sotto – fuori\dentro, lavorando essenzialmente su una semplicissima linea di terra che divide idealmente un corpo (sopra) dal suo prolungamento interiore (sotto) come fosse una radice emotiva che assorbe ciò che ci accade dentro. Con questa linea per anni ho disegnato storie di relazioni e aspetti psicologici. I disegni sono poi diventati le sculture che hai visto in mostra.

Gianni Lucchesi – People

C’è un particolare significato dietro la scelta dei materiali che utilizzi?

Certo. La cultura alchemica che mi ha sempre affascinato è strettamente legata ai materiali, per cui la scelta della materia che lavoro non è del tutto casuale. Pensiamo, ad esempio, al ferro: un elemento importantissimo per la storia dell’uomo e con il quale lavoro da tanti anni. Mi ci sono approcciato leggendo i testi sulla metallurgia e il suo simbolismo; fu conosciuto fin dall’antichità, ancor prima della sua estrazione come materiale meteoritico, inoltre la sua importanza per l’uomo che l’ha utilizzato per creare gli strumenti ha contrassegnato un’intera era. La sua brutalità mi attira perché permette di creare dei contrasti pazzeschi, anche delicati, come accade col cemento, il materiale con cui l’uomo edifica. Il lavoro col ferro e col cemento ha un significato che si lega molto al rapporto che abbiamo col costruire, col creare.
Il legno ha una valenza affettiva perché per alcune sculture ho utilizzato pezzi di legno che ho preso dallo studio di Adolfo Scarselli, il mio maestro di discipline plastiche,quando abbiamo liberato quello spazio.
Per quanto riguarda il marmo, è un materiale nuovo per me, che ha una fascinazione legata alla classicità. L’ho incontrato casualmente ma non ha un significato particolare, come anche il bronzo che utilizzo per le miniature che hai visto.

Quali sono i temi che ti interessano di più?

Mi piace lavorare su aspetti immateriali legati all’emotività del nostro percepire il mondo o aspetti che interessano la nostra psiche. Penso ad esempio a “Bipolare”, una scultura che riflette sul bipolarismo che, al di là dell’aspetto clinico, caratterizza un po’ tutti. È un’altalena che entra ed esce da una scatola e tradurre concetti immateriali in connotazioni visive è il motore dei miei lavori.

Vorrei soffermarmi sulla particolarità delle tue miniature, questi uomini che scrutano l’abisso, che giocano a golf su di un campo che pare arso dopo un incendio, che si pongono domande e che osserviamo in molteplici situazioni in giacca e cravatta. Come mai la scelta di questo abbigliamento così formale?

Volevo inventarmi un personaggio senza un’identità ben precisa, un uomo comune in giacca e cravatta, per il quale mi sono ispirato a dei ricordi personali che risalgono ai primi anni ‘80, quando Peter Gabriel spopolò col videoclip musicale di “Shock the monkey”, il quale racconta una storia di gelosia che scatena istinti primordiali, con il protagonista-uomo d’affari che man mano diventa un gibbone.
Mi intrigano i personaggi che da fuori sembrano impeccabili e poi magari chissà cosa nascondono. Il cinema è pieno di questi riferimenti come ad esempio “Le Iene” di Tarantino o i Blues Brothers.
L’idea della giacca e cravatta è un escamotage che ho deciso di utilizzare per mostrare personaggi ordinari e passivi, come fossero dei soldatini giocattolo coi quali lo spettatore interagisce per indagare i comportamenti, la postura e gli aspetti simbolici dietro la composizione. Le mia miniature in giacca e cravatta stimolano così un gioco relazionale tra spettatore e opera.
I miei personaggi in giacca e cravatta nascono per formalizzare un aspetto che poi si rivela molto significativo dal punto di vista del comportamento; alcuni di loro vanno sull’orlo del precipizio, altri ci si siedono, altri ancora si avvicinano con timore…
In “Across the river”, ad esempio, c’è un uomo comune che si affaccia nel vuoto, che cerca di guardare oltre il dirupo indagando sé stesso attraverso i suoi limiti.

In occasione della mostra a Genova, in Piazza de’ Ferrari è stata installata “Operae” un’opera di 13 metri che hai realizzato per il Fuorisalone di Milano 2023, dunque piuttosto recente, oltre che imponente. Ciò che colpisce sono questi enormi cubi con trame dorate, impilati secondo la sequenza aurea di Fibonacci e sulla cui sommità un uomo, rigorosamente in giacca e cravatta, contempla l’orizzonte. Cosa sta realmente osservando?

Quell’uomo guarda al futuro davanti a sé. Non si preoccupa delle vertigini, è seduto su una colonna di 12 cubi in cemento che simboleggia il suo passato, la sua e la nostra storia. La torre si sostiene grazie alla sequenza aurea di Fibonacci che scandisce la rotazione dei cubi secondo lo schema 1,1,2,3,5, la cui somma è 12, quanti sono i cubi e l’altezza della torre. Fibonacci aveva capito che l’armonia è presente in ogni cosa e la proporzione aurea regola ciò che ci circonda. Per quanto riguarda le trame dorate, esse sono la sovrapposizione crescente verso l’alto di un sigillo bruniano. I tratti che vedi sono le basi dei solidi, ad esempio un quadrato può essere la base di un cubo o di una piramide, così come un cerchio la base di un cilindro e così via… osservando quei graffi dorati potresti osservare le forme raggiungendo una terza dimensione, che è quella della profondità.
Metaforicamente questa colonna fatta di blocchi in cemento è il valore fondamentale dell’intera opera, poiché sostenuta dall’intelletto dell’uomo e rappresenta la sua storia.
Trovo che posizionare una scultura del genere in piazza sia stata un’operazione impattante dal punto di vista sociale, perché ti invita a guardarla e a riflettere con essa. Dopo l’esperienza di Genova, sarà esposta nelle principali città italiane.

Gianni Lucchesi – L’attesa

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Gianni Lucchesi – L’attesa (part.)
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