“La donna è senza dubbio una luce, uno sguardo, un invito alla felicità”.
Charles Baudelaire
Charles Baudelaire nel suo trattato Le Peintre de la vie moderne (1863) aveva pronosticato le direttrici dell’evoluzione del gusto artistico della seconda metà dell’Ottocento e aveva colto nella “galleria immensa della vita di Londra e della vita di Parigi” il fascino dei “differenti tipi di donna”, identificando la “modernità” con “il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”.
È il punto di partenza per l’elaborazione di un progetto estetico in cui la donna, intesa quale interprete della moda, diventa focale nell’inquadramento della modernità: “La donna è senza dubbio una luce, uno sguardo, un invito alla felicità, e talvolta il suono di una parola; ma soprattutto è un’armonia generale, non solo nel gesto e nell’armonia delle membra, ma anche nelle mussole, nei veli, negli ampi e cangianti nembi di stoffe in cui si avvolge, che sono come gli attributi e il fondamento della sua divinità”.
Donna e veste personificano quindi di fronte all’acutissimo sguardo baudelairiano “un tutto indivisibile”, secondo un ragionamento condiviso senz’altro anche da quel Giuseppe De Nittis che giungeva a Parigi proprio nell’anno della scomparsa dell’autore de Les fleurs du mal: in bilico sulla sedia o serrando il monocolo le donne denittisiane popolano ippodromi e teatri con toilettes impeccabili, fino a diffondere i loro effluvi nei Salotti della Principessa Matilde, in un trionfo della mondanità che è insieme eleganza, lusso e emancipazione culturale.
Tra i cantori della femminilità moderna si colloca in prima posizione Federico Zandomeneghi, che in occasione della quarta Esposizione Impressionista veniva additato da Diego Martelli come il cantore di un nuova tipologia femminile, quello della moderna parigina “figura di giovane donna che ride, mostrando con una franca civetteria due file di bei denti, movente il corpicciolo isterico in un abito corazzato di primissimo rango”.
Soprattutto la parabola parigina di Giovanni Boldini diventa esemplare negli anni Settanta di una stagione ritrattistica che tra moda e pose dispiega la complessa varietà femminile tanto nella lussuosa e felpata intimità dei salotti privati quanto sul palcoscenico rutilante della vita urbana.
L’artista impose infatti una cifra ritrattistica destinata a divenire miliare nei circuiti della borghesia parigina, destando perfino nella critica l’impressione di una bravura sbalorditiva da sembrare – come si legge sulla “Gazette des Beaux Arts” del 1881 – “abuso della mano, malattia endemica in Italia, lo chic”.
Mirabile appare dunque il percorso nella galleria femminile dispiegata da Boldini dagli anni Ottanta fino al secondo decennio dell’Ottocento, fino all’estrema declinazione della femme
fatale Belle Epoque.
Al di là delle suggestive coordinate ritrattistiche offerte da Boldini e dell’esemplare declinazione del tipo della moderna Parigina assestata da de Nittis e Zandomeneghi, il cliché femminile subirà tra gli anni Ottanta dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale infinite variazioni e complicazioni.
Dalle fasi dell’intimità domestica intessuta di incombenze professionali e appassionate letture, la donna consegue infatti la sua emancipazione attraverso escursioni nel parco, villeggiature e reveries: frangenti diversi di un identico e sognato abbandono alle proprie divagazioni interiori che non sempre si coniugano con la vocazione borghese e l’identità familiare.
Basti pensare a Vittorio Corcos che allo scorcio dell’Ottocento imponeva una tipologia femminile ritenuta da pubblico e critica addirittura inquietante per la sua innegabile modernità, coincidente con la scelta di un’eroina borghese, ambigua e voluttuosa, i cui occhi, come scrisse Vittorio Pica, esprimono: “i caldi desideri e i torbidi pensieri”.
All’alba del Novecento la stagione della reverie diventa allora totalizzante per la donna Belle Epoque, in quanto segna l’uscita dalle convenzioni sociali e dagli oneri familiari: si sogna davanti alla toilette, in riva al mare e nel folto di un giardino, secondo itinerari che trasgrediscono le incombenze dell’ufficialità.
Siamo a un passo dalla perdizione ed è proprio Vittorio Corcos che nell’effigie della Morfinomane anticipa le conclusioni di una complicazione del cliché femminile fino alle soglie del travolgimento psichico.
La fuoriuscita dall’impasse della parabola borghese sembra attuarsi negli anni 10, quando lontano dalle inibizioni e dal quotidiano la donna riesce a frequentare i luoghi del divertimento e della mondanità con incontrovertibile spirito di emancipazione: il mito di Coco Chanel effigiata tra gli altri da Giuseppe Cominetti diventa allora emblematico nell’allusione alle infinite possibilità della seduzione anche e soprattutto quale tramite di una altrimenti impossibile escalation sociale e professionale.
Le incongruenze della psiche e le evasioni dalla quiete borghese, altrimenti ritratte quale deviazione morale, vengono ora esaltate quale momento di gioiosa emancipazione. Mutano infatti gli stessi ritmi del divertimento, e le occasioni di danza mondana vedono trionfare sul romantico valzer la frenesia del tango e del can can: le farandoles di Giuseppe Cominetti mettono in scena l’ebbrezza di una danza scomposta, nella quale indistinte silhouettes contraddistinte da modernissimi copricapo esprimono un’emotività ormai incontrollabile.
La granitica e altera identità borghese cede alle contraddizioni sempre più evidenti di una società tentata dal vizio e turbata dallo spettro della guerra, e perfino le toilettes delle Perdute di Pompeo Mariani si sfrangiano impudiche nell’atmosfera dorata del casinò di Montecarlo.
Veglioni e ricevimenti diventano allora per gli artisti alle soglie dell’avanguardia vere escursioni sul terreno dell’indagine femminile in rapporto alle infinite possibilità luminose e cromatiche.
Tappa culminante, nel 1914, quello della coppia emancipata, femme fatale lei e dandy lui, che, come in un racconto di Villiers de L’Isle-Adam, incede altera nella Mondanità di Aroldo Bonzagni, ostentando, oltre alla complice estraneità rispetto alle consuetudini borghesi, anche e soprattutto tracce indelebili della raffinata cultura espressionista personificata dall’artista in quel coagulo di avanguardie europee addensatosi in Italia alle soglie del primo conflitto mondiale.
Dal Catalogo della mostra “La Belle Epoque. Arte in Italia 1880 – 1915” (10 febbraio – 13 luglio 2008, Palazzo Roverella – Rovigo) promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.
Ufficio Stampa:: Studio Esseci