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“Le mie foto: corpi evocati in uno spazio senza tempo”. Intervista a Pino Musi

di Teresa Lanna.

"Le mie foto: corpi evocati in uno spazio senza tempo". Intervista a Pino Musi

La fotografia è la sua compagna di vita; quest’anno potrebbe celebrare con lei, a tutti gli effetti, le nozze d’oro, dato che sono cinquant’anni che condividono lo stesso percorso, professionale e di vita.

Parliamo di Pino Musi, fotografo e artista visivo originario di Salerno, attualmente residente a Parigi. Egli ha mosso i primi passi nel mondo della fotografia a soli 14 anni apprendendo, da autodidatta, la tecnica del bianco e nero. L’attrazione per la camera oscura e la costante frequentazione del teatro d’avanguardia, almeno fino alla fine degli anni ottanta, hanno segnato la sua sperimentazione, sia sul piano linguistico che su quello concettuale. Altrettanto determinanti, per Musi, sono stati gli incontri con il regista Jerzy Grotowski e l’architetto svizzero Mario Botta, con cui ha collaborato a stretto contatto per anni. Il lavoro di Musi ha abbracciato molteplici aree d’interesse, come l’antropologia, l’architettura, l’archeologia e l’industria. La sua attuale ricerca sulla forma trova il miglior mezzo espressivo nell’arte del bookmaking; in particolare, nella creazione di libri d’artista, per i quali ha ricevuto importanti riconoscimenti a livello internazionale in diverse occasioni. Finora sono stati pubblicati più di venticinque libri con sue opere; tra questi, Border Soundscapes (Artphilein Editions, 2019). Dal 2011 al 2017 ha insegnato presso il Master di Alta Formazione sull’Immagine Contemporanea della Fondazione Fotografia di Modena. Nel 2012, il Museo dell’Ara Pacis di Roma ha ospitato la mostra Rivelazioni della Forma. Le origini dell’Italia nelle fotografie di Pino Musi. Nel 2013, il suo libro d’artista _08:08 Operating Theatre, è stato incluso nella selezione finale di varie liste internazionali per i migliori libri fotografici. Le opere fotografiche di Pino Musi sono presenti in collezioni private e pubbliche, tra cui la Fondazione Rolla, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la Fondazione Fotografia di Modena, il FRAC (Fonds régional d’art contemporain) Bretagne, la Fondazione MAST.

Abbiamo intervistato il fotografo salernitano in occasione della mostra fotografica Pino Musi _08:08 Operating Theatre, a cura di Antonello Scotti, presso Magazzini Fotografici, uno spazio espositivo sito nel centro storico del capoluogo partenopeo. L’esposizione è composta da una selezione delle prese fotografiche effettuate da Pino Musi in tre sale operatorie del Sud Italia, esattamente cinque minuti dopo il termine dell’intervento chirurgico e l’uscita del paziente e del chirurgo, e dieci minuti prima del riordino della sala, da parte degli infermieri, per l’intervento successivo.

[Teresa Lanna]: Lei ha iniziato a fotografare da autodidatta, a soli 14 anni; quando ha capito che la sua passione sarebbe diventata un mestiere?

Pino Musi, ph. Teresa Lanna

[Pino Musi]: A seguito di una serie di vicissitudini familiari abbastanza drammatiche, in qualche modo ho dovuto ricavarmi un mio mondo, una sorta di microcosmo in cui poter creare i miei fantasmi. In quel periodo avevo due grandi passioni, che erano arrivate una dopo l’altra. Innanzitutto, quella per la fotografia; prevalentemente, la camera oscura. Quello che a me interessava, però, non era la semplice macchina da presa, ma tutto il processo alchemico, la chimica, che c’era al suo interno. Poi, è arrivato il teatro. Entrambe sono espressioni la cui matrice è l’oscurità; una sorta di buco nero che porta a comporre immagini. La differenza è che la fotografia è fatta di immagini bidimensionali, mentre quelle del teatro sono tridimensionali. A Salerno, poi, a quell’epoca (anni ’70) c’era una delle più importanti rassegne teatrali, Nuove Tendenze; un bellissimo sodalizio tra università ed altre istituzioni. Tutto questo per dire che la fotografia è un’attività che mi sono costruito da solo, giorno dopo giorno, e che poi è diventata la mia compagna di vita. Inoltre, iniziando così presto ad approcciarmi a questo mondo, col tempo si sono sedimentate tutta una serie di riflessioni intorno al medium, ai concetti, ai metodi e ai processi, fino ad arrivare ad oggi; un sodalizio che dura da ben 50 anni.

Nei suoi scatti, più che persone ci sono spazi che lasciano percepire che qualcuno vi è stato, ma che ora è andato via; una sorta di ‘presenza’ dell’assenza. È così?

In verità, paradossalmente, tutto il mio lavoro è sul corpo, perché, persino i volumi, le architetture, sono elementi che puoi far vivere e muovere. Al centro della mia attenzione c’è lo spazio, sin dai tempi del teatro. All’interno di questo spazio, poi, si muovono corpi che non necessariamente sono umani, anzi quasi mai. In ogni caso, in qualche modo il corpo umano è sempre evocato. Non importa che sia un lavoro sull’archeologia, sull’architettura o su altri più complessi come Operating theatre, per esempio, in cui il corpo umano viene evocato in tutta la sua drammaticità. Il tentativo è sempre quello di creare una sorta di confronto dialettico tra le varie discipline. I nomi dei miei lavori cambiano, a seconda che si tratti di una mostra o di un libro, ma tutti decantano questo elemento pulsante.

Lei privilegia scatti in bianco e nero o grigio; è come se la scelta del bianco e nero, o piuttosto di una scala di grigi, fosse sempre accennata, in filigrana.

Io sono nato col bianco e nero, operando nella camera oscura, e quello è stato determinante. Per la tipologia di foto che faccio, in effetti il colore è ridondante, perché, in un certo senso, il bianco e nero è materia, mentre il colore è aria, atmosfera; non è il colore delle cose. Le foto a colori più interessanti sono quelle in cui non è importante sapere che il cielo è blu, ma quelle in cui c’è qualcosa che pervade l’immagine e che le dà un colore. In più, i grigi stessi sono colore, se sviluppati in una maniera molto articolata, perché hanno una tale ampiezza di tono e scansione di sfumature che in qualche modo sono dei colori; solo in un ambito monocromo.

Le sue immagini sembrano evocare atmosfere metafisiche, tipiche delle opere dechirichiane; vi è una influenza in tal senso?

Sì, certamente, ma non è quello che intendo trasmettere io. Ciò che interessa a me è una specie di sconcerto visivo; per esempio, da un certo punto ho cominciato a usare il digitale, ma non in funzione esemplificativa rispetto all’analogico, bensì come strumento da utilizzare quando cerco una piattezza che ha più a che fare col disegno che con la fotografia. Al tempo stesso, però, mi rendo conto che l’assenza di una scansione dei piani può evocare quest’atmosfera per certi versi un po’ pulviscolare. In realtà, il riferimento non è così marcato, malgrado sia una fotografia che prescinde da un prima e un dopo. Le mie foto, infatti, possono star bene anche da sole, perché non credo che una fotografia debba far parte di un racconto. Tu erri sulla sua superficie; non hai bisogno di un itinerario già tracciato a monte. Le mie foto lasciano un alone di sospensione; sono sempre in un tempo congelato. Io non cerco stati d’animo, ma un’immagine che stia all’interno di una bolla sospesa, in cui il fruitore possa navigare e creare il suo mondo, la sua storia; non voglio farlo io per lui. Io dò a te la possibilità di tracciare in autonomia il tuo percorso. Lo spettatore, per me, è centrale; la mia fotografia non è mai concepita per me, ma per un ‘fuori’ da me.

Nel titolo del progetto 08:08 Operating Theatre, a cosa fanno riferimento i numeri iniziali e quando è nata l’idea degli scatti nelle sale operatorie?

Il primo scatto fu fatto alle 08:08 del mattino, e nell’arco di una settimana, per una serie di eventi concomitanti; in primis, perché gli interventi erano abbastanza lunghi e l’attesa, per me, cominciava a diventare snervante. Così ne feci uno al giorno; scattavo, andavo a casa e tornavo il giorno dopo. Di fatto, era impossibile aspettare 8-9 ore, perché dovevi entrare esattamente cinque minuti dopo la fine dell’intervento e dieci minuti prima del successivo, ed appena prima della sterilizzazione degli strumenti utilizzati; un’operazione che, per ovvi motivi, deve avvenire in tempi rapidissimi. Un protocollo che mi diedi da rispettare fu, allora, quello di scattare un’unica foto con la macchina grande sul cavalletto. Una immagine per sette interventi, per una settimana; in altre parole, una foto al giorno per sette giorni. Memorizzavo la tipologia di intervento, ma non mi interessava focalizzare l’attenzione su tale dettaglio. Nei miei scatti, infatti, io miro a dare solo una specie di progressione temporale, tipo “Operating theatre” n.1, n. 2, n. 3…, ma non tendo quasi mai a didascalizzare la foto, perché poi si va a scadere nella morbosità, soprattutto in tema di sale operatorie, ospedali, operazioni chirurgiche e quindi di patologie. Invece, quella foto per me è un’astronave in cui navigare. Anche per questo è in bianco e nero; volutamente, non c’è riferimento a sangue, a drappi o cose simili. Sei fuori da ogni gesto; vedi solo una traccia, un’impronta. Il mio è più un lavoro sul tempo; non conta né il luogo né il soggetto, perché inevitabilmente, poi, si scade nella cronaca, mentre le mie foto sono fuori luogo e fuori tempo. Non inserisco elementi che diano memoria dell’intervento, così da non fornire una linea interpretativa aprioristica. Si tratta di uno scenario atipico; è come se fosse uno sguardo dal punto di vista del paziente, dall’interno; gli occhi attenti di chi ha vissuto esperienze simili e viene quasi sconvolto da immagini che non sono quelle che comunemente si vedono in questi casi, come il sangue disseminato ovunque, etc. Qualsiasi cosa che non sia acquisita, scontata, inevitabilmente destabilizza; questo lavoro, ad esempio, nasce come fotografico, ma poi si sviluppa su altri territori. Siamo partiti nel 2009 con una mostra fotografica e, nel 2013, abbiamo creato una sorta di macchina-libro molto complessa, in cui, per citare un particolare, il testo è rilegato con un vero e proprio filo di sutura e, contemporaneamente, il tutto è inserito all’interno di un’istallazione che comprende una serie di estratti sonori e scritti di Artaud, che è un grande compagno di viaggio di questo progetto articolato in interstizi di tempo.

Significativi, per lei, sono stati gli incontri con il regista Jerzy Grotowski e con l’architetto svizzero Mario Botta; come è stato collaborare con loro?

Per quanto riguarda Grotowski, mi sono sempre interessato al suo concetto di teatro povero, inteso come capacità di prendere il massimo dal corpo dell’attore e dalla scrittura, senza avere la necessità di aggiungere fronzoli. Tutto questo l’ho poi riportato nella mia attività, ovvero l’idea di lavorare sull’essenza delle cose, senza creare scenografie, impalcature… Le cose devono essere dense nel loro minimo, e non servirti a fare progetti o lavori che poi finiscono per essere deboli. Ebbi con Grotowski due incontri, ma furono significativi perché vide i miei lavori e mi disse: “Pino, tu sei uno che lavora sui tempi lenti, quindi a maggior ragione devi lavorare con più attenzione”. Con Botta c’è stato un rapporto molto professionale e costruttivo perché io non conoscevo assolutamente nulla di architettura ed è stato lui a farmi appassionare allo spazio e ai volumi.

Ebbene ci sono nel respiro umano sussulti e rotture di tono, e da un grido all’altro inattesi paesaggi attraverso i quali all’improvviso possono essere evocati spiragli e slanci dell’intero corpo delle cose, e che possono rinvigorire o liquefare un arto come un albero che si addossi contro la montagna della sua foresta. Tuttavia il corpo ha un respiro e un grido per i quali può essere attirato nei bassifondi decomposti dell’organismo e trasportarsi visibilmente nelle alte sfere luminose dove lo attende il corpo superiore.”
(dal testo diAntonin Artaud, “Il Teatro e la Scienza”, 1947, scritto tradotto dal testo murale in lingua francese, parte dell’esposizione 08:08 Operating Theatre).

Tutte le immagini: © Pino Musi. Tutti i diritti riservati