di Teresa Lanna.
«Molti mi dicono che sono un artista, ma non ci tengo a passare per artista, sono un fotografo artigiano».
Le sue fotografie raccontano l’Italia dal dopoguerra ad oggi, facendo rivivere un passato che, osservando i suoi scatti, ritorna improvvisamente alla mente di chi l’ha vissuto davvero, ma anche di coloro che lo hanno studiato o si apprestano a farlo e possono, così, evocarlo in modo ancor più dettagliato.
Maestro del bianco e nero, della fotografia di reportage e di indagine sociale, in circa settant’anni di carriera, Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930) ha narrato la sua epoca costruendo un percorso visivo straordinariamente originale, con un approccio mai artefatto, bensì quasi da artigiano, appunto; non mero osservatore di quanto accadeva intorno, ma autentico partecipe degli eventi.
Venezia rappresenta il centro del suo mondo; una città cui egli rimarrà sempre legato, pur non essendovi nato: «i nonni erano veneziani, i bisnonni veneziani, papà venezianissimo». D’altronde, è proprio nel capoluogo veneto che il fotografo sviluppa il suo percorso professionale, grazie all’incontro con circoli fotografici come La Gondola; sarà il luogo dove sempre tornerà, come una meta da raggiungere e dalla quale non staccarsi mai. Lo testimoniano le prime immagini degli anni Cinquanta, in cui ci si incanta di fronte ad una città intima e quasi sussurrata, meravigliosamente poetica, passando per la contestazione alla Biennale del 1968, fino al celebre progetto dedicato alle Grandi Navi del 2013.
Da Venezia si giunge, poi, alla Milano dell’industria, delle lotte operaie, degli intellettuali, per esplorare, via via, quasi tutte le regioni e le città italiane, dalla Sicilia alle risaie del vercellese, colte e narrate visivamente nelle loro trasformazioni sociali, culturali e paesaggistiche, dal secondo dopoguerra ad oggi.
Inoltre, i celebri reportage dai luoghi del lavoro realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e, soprattutto, Olivetti (con cui collabora per quindici anni), che lo aiutano a crearsi una coscienza sociale e, come afferma nell’intervista a Margherita Guccione, realizzata per la mostra nella Capitale: «Posso definirmi comunista fuori dalle righe, non tanto perché ho letto i testi importanti del comunismo, ma perché ho lavorato in fabbrica con gli operai, capivo i loro problemi». Nel volume Morire di classe, pubblicato nel 1968 e realizzato insieme a Carla Cerati, possiamo osservare immagini di denuncia e rispetto, straordinarie e terribili, che documentavano, per la prima volta, le condizioni all’interno degli ospedali psichiatrici in diversi istituti d’Italia. Il testo ha contribuito in maniera determinante alla costituzione del movimento d’opinione che ha portato, nel 1978, all’approvazione della legge 180 per la chiusura dei manicomi.
Oggetto d’attenzione dell’occhio del fotografo ligure sono anche i popoli e la cultura Rom, ma anche i tanti piccoli borghi rurali e le grandi città; i luoghi della vita quotidiana; L’Aquila colpita dal terremoto; i cantieri ed i molti incontri con figure chiave della cultura contemporanea (fra questi, Dino Buzzati, Peggy Guggenheim, Luigi Nono, Mario Soldati).
Particolarmente importante si rivelerà, per Berengo Gardin, la collaborazione con il settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio, dove, tra il 1954 e il 1965, pubblica oltre 260 fotografie, e di cui scrive: «Nella mia vita ho incontrato molti importanti intellettuali italiani che sono diventati amici e hanno influenzato moltissimo la mia fotografia. Il più importante è stato Mario Pannunzio».
Il MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma ha reso omaggio al fotografo italiano dedicandogli un’esposizione che si snoda in diversi nuclei tematici espressi in oltre duecento scatti, tra immagini più o meno note ed altre completamente inedite.
La mostra, Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere, riprende il titolo del celebre libro del 1970 curato da Cesare Colombo, L’occhio come mestiere, un’antologia di immagini del fotografo che testimoniava l’importanza del suo sguardo, del suo metodo e della sua capacità fuori dal comune di narrare il suo tempo.
Abbiamo approfondito il percorso professionale ed umano di Gianni Berengo Gardin grazie ad Alessandra Mauro che, insieme a Margherita Guccione, è la curatrice della personale attualmente in corso nel Museo di Via Guido Reni.
La mostra si intitola L’occhio come mestiere; ad un certo punto, infatti, la passione di Berengo Gardin per la fotografia diventa un lavoro. Ci sono dei cambiamenti particolarmente importanti, sia nell’ambito della tecnica utilizzata che nei soggetti ritratti, in questa sorta di ‘passaggio’?
Se il fotografo amatoriale può uscire, quando ha tempo, con la macchina fotografica al collo e riprendere quel che più gli piace – gli scorci della propria città, il bacio di due amanti appassionati, i giochi di luce e di contrasti còlti nella folla, per il professionista si tratta, invece, di rispondere alle necessità della committenza che richiederà determinati reportage – descrizione di luoghi di lavoro, di un paesaggio, di un paese, di un personaggio, di un oggetto in particolare. Ecco che il fotografo deve imparare a raccontare, ad informare e a descrivere con le proprie fotografie, muovendosi in una necessaria economia di mezzi, fatta anche di grande sintesi visiva e rapidità di esecuzione.
Non diverso è stato il cammino di Gianni Berengo Gardin quando, dalla Venezia delle sue scorribande fotografiche domenicali, decise di passare alla fotografia come lavoro. Il mestiere di fotografo consiste nel riuscire rapidamente a visualizzare una situazione, sintetizzarla in “quadri significativi”. Il processo è evidente nel progressivo lavoro di precisione dello sguardo di Berengo Gardin che, senza mai perdere la freschezza delle prime prove fotografiche, la curiosità e la “voglia” di guardare, ha imparato a rispondere alle diverse necessità professionali e a raccontare, in immagini, storie e situazioni che non erano le sue.
Nel corso della sua attività, Berengo Gardin ha avuto diversi committenti; ne può citare qualcuno tra i più significativi?
Berengo Gardin ha a lungo lavorato per il Touring Club realizzando molti libri fotografici sull’Italia, le diverse regioni del nostro paese e molte città e nazioni estere. Ha, inoltre, a lungo lavorato per grandi aziende come l’Olivetti e l’Alfa Romeo e ha anche lavorato spesso per architetti come ad esempio Renzo Piano, di cui ha documentato molti cantieri in giro per il mondo.
A proposito di committenze, possiamo ravvisare qualche lavoro che il fotografo ha eseguito pur non essendo proprio nelle sue corde?
Non credo proprio… Berengo Gardin è, infatti, riuscito sempre a entrare in sintonia con i soggetti del suo reportage, magari cercando di interpretare a modo suo, con il suo stile e la sua sensibilità, quel che aveva davanti. Questa è la forza del suo “mestiere”.
L’esposizione comprende centinaia di foto; con quale criterio sono state selezionate ed organizzate?
La mostra non ha sezioni, ma è stata concepita come un lungo flusso di fotografie che, una dopo l’altra, si dipanano nello spazio e nel tempo, mostrando proprio questo affinarsi progressivo dello sguardo dell’autore. Le scelte delle immagini e le connessioni tra un’immagine e l’altra intrecciano il criterio cronologico con quello tematico e evidenziano uno stile, nei gesti scelti come nel rapporto evidente tra personaggi in primo piano e sfondo, che, da un reportage all’altro, da una fotografia all’altra, si precisa sempre più.
In questo lungo flusso di 193 immagini, Venezia ritorna quattro volte, perché è il luogo del cuore, la città dove tutto è cominciato. Si inizia, dunque, a Venezia, con immagini della fine degli anni Cinquanta; ci si torna verso il ‘68, ci si torna ancora più tardi con un reportage molto intenso delle “vedute” da una particolare finestra del Canal Grande, e si chiude con il reportage sulle Grandi Navi a Venezia.
Questo lungo serpente di immagini è compreso tra due installazioni: lo studio del fotografo e le copertine degli oltre 250 libri realizzati nel corso della sua vita. Come dire: il luogo dove la fotografia nasce, viene pensata e poi custodita (lo studio) e il “luogo” per cui è fatta (il libro dove dovrà essere pubblicata).
Tra le città italiane più amate e fotografate da Berengo Gardin ci sono Venezia e Milano; possiamo cogliere delle tematiche, luoghi, soggetti sui quali lo sguardo del fotografo si posa con maggiore attenzione ed interesse?
Venezia, come detto poc’anzi, è il luogo del cuore, dell’affezione di un’intera vita, e il fotografo ne cerca le differenze e le trasformazioni. A Milano, dov’egli risiede, l’autore senz’altro ha osservato nel tempo, con molta attenzione, la conformazione sociale e urbana della città come i diversi ambienti e forme di lavoro.
Se dovesse scegliere uno scatto tra i tanti, quale porrebbe alla nostra attenzione, e perché?
Tante sono le fotografie straordinarie di Berengo Gardin che mi colpiscono. Sicuramente citerei il reportage sui manicomi, realizzato nel 1968 e inserito, insieme alle foto di Carla Cerati sullo stesso argomento, nel libro di Franco Basaglia Morire di Classe. Quelle immagini rappresentano uno straordinario esempio di cosa voglia dire realizzare reportage di inchiesta portando, letteralmente, luce dove luce non c’era.
Amo molto anche le foto che raccontano l’Italia rurale, con volti e situazioni che forse non esistono più ma che ci appartengono, come ci appartiene tutto il passato del nostro paese. Berengo Gardin è sempre stato molto attento a questo aspetto e ha documentato in modo straordinario il passaggio dall’Italia contadina all’Italia urbanizzata.
Ci sono “compagni di viaggio” che hanno sostenuto, sia a livello professionale che umano, Berengo Gardin nel corso della sua carriera?
Molti sono stati i compagni di viaggio. Dai fotografi Ugo Mulas e Maru Dondero, tra i primi che Berengo Gardin conobbe una volta arrivato a Milano; a Gabriele Basilico e Ferdinando Scianna. Molti anche gli scrittori ed intellettuali. Poi, un rapporto particolare, fatto di considerazione, stima reciproca e affinità elettiva, senz’altro lo lega a Renzo Piano.
Berengo Gardin ha seguito storie e vicende tra le più complesse del reportage sociale, come quelle dei manicomi. Cosa emerge da questi scatti fatti in ambienti particolarmente intrisi da sofferenza e come si rapportano i vari soggetti di fronte all’occhio del fotografo?
È evidente in queste immagini il rapporto di confidenza e fiducia che il fotografo riesce a instaurare con i soggetti che riprende. Soprattutto questo, dunque, appare nei suoi lavori più prettamente sociali e di denuncia: una capacità di comprensione, condivisione e pietas, intesa nel senso più alto del termine.
fino a domenica 18 Settembre 2022
Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere
MAXXI ROMA
via Guido Reni, 4 A, 00196 Roma
Immagine in evidenza: Treno Roma-Milano, 1991 – © Gianni Berengo Gardin. Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia